E così fu che un affamatissimo Dexter si trascinò stancamente al laboratorio analisi, incalzato a ogni passo dalle pressanti richieste della sorella perché identificasse in fretta la vittima delle Everglades. Tolsi i campioni dalla borsa e mi gettai sulla sedia, in preda a uno scottante interrogativo. Mi conveniva tornare in macchina in Calle Ocho? Oppure dirigermi semplicemente al Café Relampago che era più vicino e faceva ottimi panini?
Come le più importanti questioni della vita, anche questa non aveva una risposta facile, e riflettei a lungo sulle implicazioni che comportava. Era preferibile mangiare veloce, oppure bene? Se avessi scelto il piacere immediato, forse ciò mi avrebbe reso più debole? E perché proprio oggi mi andava di mangiare cubano? Perché, per esempio, non mi era venuta in mente la carne alla griglia?
Nell’istante in cui ebbi quel pensiero, cominciai a perdere l’appetito. La ragazza delle Everglades l’avevano fatta alla griglia, e per motivi che mi impensierivano parecchio. Non riuscivo a togliermi quelle immagini dalla mente: la poverina immobilizzata, che sanguinava lentamente, mentre le fiamme si facevano sempre più alte, la folla si eccitava e il cuoco la guarniva di salsa barbecue. Mi parve quasi di sentire l’odore della carne che cuoceva, il che mi tolse completamente dalla testa tutte le mie velleità di pranzare e di gustare un bel piatto di ropa vieja.
D’ora in poi la mia vita sarebbe andata avanti in questo modo? Come avrei potuto fare il mio lavoro, se provavo empatia umana per tutte le vittime con cui avevo a che fare ogni giorno? Peggio ancora, come avrei potuto reggere un lavoro che si frapponeva tra me e il mangiare?
Era davvero una brutta faccenda e lasciai che l’autocommiserazione si impossessasse di me per qualche minuto. Dexter il Disorientato, che immagine assurda. Io, che avevo spedito all’altro mondo dozzine di meritevoli criminali, ero lì a piangere la scomparsa di una ragazzina qualunque, e solo perché chi l’aveva fatta fuori non ne aveva sprecato la carne.
Era tutto così surreale; e in ogni caso, la mia potente macchina aveva bisogno di carburante. Sgombrai dunque la mente da quei tristi pensieri e attraversai il corridoio diretto ai distributori automatici.
Osservare attraverso il vetro la magra scelta di snack non servì a migliorare il mio umore. All’ospedale una barretta di Snickers mi era parsa manna dal cielo. Ora mi sembrava un castigo. Eppure nessun altro snack mi tentava con allettanti promesse. Nonostante gli involucri squillanti e gli slogan gioiosi, vedevo soltanto una vetrina affollata di prodotti dai colori chimici e pieni di conservanti. Tutta quella roba aromatizzata artificialmente da genuini additivi sintetici mi suscitava lo stesso appetito del set del Piccolo Chimico.
Ma il dovere mi chiamava, e avevo bisogno di mangiare qualcosa che mi permettesse di funzionare al massimo grado. Così mi sintonizzai sulla scelta meno invasiva: un pacchetto di cracker con una sostanza nel mezzo che pretendeva di essere burro di arachidi. Inserii il denaro e premetti il pulsante. Lo snack cadde nel cassettino e, non appena mi chinai a recuperarlo, una figurina oscura fece capolino nei sotterranei del Maniero Dexter. Mi bloccai per qualche istante e mi misi in ascolto. Non udii nulla, a parte il setoso fruscio di una bandierina d’allarme, segno che le cose non andavano come avrebbero dovuto. Mi tirai su lentamente e con cautela. Mi voltai.
Alle mie spalle non c’era nulla: nessun maniaco che brandiva un coltello, nessun autocarro che mi finiva addosso, nemmeno un colosso in turbante armato di scimitarra… nulla. Eppure, la vocina continuava ad avvisarmi di stare in guardia.
Il Passeggero mi stava prendendo in giro, ovvio. Forse si era offeso perché non l’avevo più nutrito né addestrato. “Taci” gli dissi. “Vattene, lasciami in pace.” Ma lui non la smetteva con i suoi sorrisetti, così lo ignorai e feci per attraversare il corridoio.
Finendo praticamente addosso al sergente Doakes… o, almeno, a ciò che ne rimaneva.
Doakes mi aveva sempre odiato, persino prima del momento in cui non ero riuscito a salvarlo dalle grinfie di un dottore pazzo che gli aveva tagliato mani, piedi e lingua. Insomma, io ci avevo provato, seriamente, ma la faccenda non era andata a buon fine e, come diretta conseguenza, Doakes aveva perso qualche piccola e sopravvalutata parte del corpo. In ogni caso, anche prima di questo episodio, mi odiava comunque perché, a differenza di tutti i poliziotti che conoscevo, lui era l’unico a sospettare della mia vera natura. Non disponeva di prove né di apparenti motivazioni, ma in qualche modo lo sapeva.
E ora se ne stava lì, immobile sulle sue protesi, a scrutarmi con il veleno di mille cobra. Per un istante sperai che il dottore pazzo gli avesse cavato anche gli occhi, ma poi mi resi subito conto che si trattava di un pensiero poco carino, inadatto al nuovo e umano me stesso, così lo scacciai e rivolsi a Doakes un sorriso cordiale.
— Sergente Doakes — dissi. — Lieto di vederla da queste parti, e sempre così in ottima forma.
Doakes non fece nulla, continuò semplicemente a fissarmi. Posai lo sguardo sugli uncini metallici che aveva al posto delle mani. Stavolta non aveva con sé quel congegno con le frasi preregistrate che lo aiutava a comunicare; forse voleva avere liberi entrambi gli artigli per potermi strangolare, o ancora più verosimilmente meditava di servirsi del distributore di snack. Visto che era privo di lingua, i suoi tentativi di parlare senza sintetizzatore erano decisamente imbarazzanti, costellati di “ngah” e suoni simili, e magari non voleva rischiare di fare una figura ridicola. Così si limitò a fissarmi, finché i miei tentativi di rendere l’incontro amichevole svanirono.
— Be’ — dissi — è stato bello parlare con lei. Buona giornata. — Mi diressi verso il laboratorio, girandomi una volta sola. Doakes continuava a scrutarmi con il suo sguardo velenoso.
Te l’avevo detto, gongolava il Passeggero, ma io mi limitai a fare un cenno al sergente ed entrai.
Quando Vince e gli altri furono di ritorno verso le tre, continuavo ad avere in bocca uno sgradevole retrogusto di cracker.
— Fantastico — fece Vince, gettando il borsone sul pavimento.
— Credo di essermi preso una scottatura.
— Che cos’hai mangiato a pranzo? — chiesi.
Sbatté le palpebre come se gli avessi fatto una domanda senza senso, e forse era vero. — Uno dei poliziotti si è fermato a un Burger King — rispose. — Perché?
— Non ti è passato l’appetito a pensare a quella ragazza laggiù, arrostita e mangiata?
Vince sembrava ancora più stupito. — No — fece, scuotendo lentamente il capo. — Ho preso un Double Whopper con formaggio e patatine fritte. Ti senti bene?
— Ho soltanto fame — risposi.
Vince mi lanciò un’occhiata perplessa e io, per non sentirmi osservato, mi alzai e tornai al lavoro.
16
Quando il telefono suonò, era ancora buio. Mi girai sul fianco verso la radiosveglia che tenevo sul comodino. Era odiosamente sintonizzata sulle 4.47. Dall’ultima volta che Lily Anne si era messa a piangere, avevo goduto di appena venti minuti di sonno reale, e quella sveglia telefonica non fu per niente gradita. Risposi comunque all’istante, con la speranza che lo squillo non svegliasse la piccola. — Pronto.
— Mi servi qui, presto — dichiarò mia sorella. Non sembrava affatto stanca, e la cosa mi infastidì almeno quanto l’essere stato svegliato a quell’orario assurdo.
— Deborah — obiettai, con la voce ancora impastata dal sonno — mancano ancora due ore e mezza prima che sia “presto”.
— Abbiamo confrontato il tuo campione di DNA — disse, senza considerare che, vista l’ora, si trattava di un’osservazione piuttosto complessa. — È di Tyler Spanos.