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Mi venne in mente il Passeggero Oscuro. Lo sentii agitarsi leggermente dentro di me, come per ricordarmi che se gli avessi dato retta nulla di tutto questo sarebbe successo. — No, per me non c’è niente di simile — risposi.

Mi scrutò per un lungo istante, schiudendo le labbra, ma senza smettere di sorridere. — Okay — fece, come se sapesse che stavo mentendo ma non le importasse. — Per me sì, invece. Per me esiste.

— È molto bello avere un sogno — replicai. — Ma non pensi che potrebbe avverarsi più facilmente se usciamo di qui?

Samantha scosse il capo. — Mmmh… no — disse. — Il punto è proprio questo. Che devo stare qui. Altrimenti, cioè… non potrò… — Si morse le labbra, senza smettere di agitare la testa.

— Che cosa? — chiesi. La sua ritrosia mi stava facendo venire sempre più voglia di spaccarle i denti. — Che cosa non potrai?

— Non è facile dirlo, persino adesso — disse. — È una specie di… — Si incupì, il che non mi dispiacque affatto. — Non hai anche tu un segreto che… non puoi farci niente, ma insomma… cioè, di cui ti vergogni?

— Certo — risposi. — Ho visto tutte le puntate di X-Factor.

— Quelle le hanno viste tutti — disse sdegnosa, poi mi rivolse una smorfia acida. — Ma proprio tutti. Io intendevo qualcosa che… sai, la gente fa di tutto per inserirsi, per essere considerata come gli altri. E se hai qualcosa dentro che ti fa sentire… Lo sai che è del tutto sbagliato, e bizzarro; non sarai mai come gli altri… ma desideri tanto diventarlo. E ci stai male, e forse per te sentirti inserito conta ancora di più. Che alla nostra età ha una grande importanza.

La guardai, leggermente sorpreso. Mi ero dimenticato di aver a che fare con una diciottenne che, a quanto avevo sentito dire, doveva essere una tipa sveglia. Forse l’effetto delle droghe che le avevano somministrato stava svanendo, e nel frattempo era contenta di avere qualcuno con cui parlare. In ogni caso, finalmente mostrava un minimo di spessore, alleggerendomi il peso di quell’orribile prigionia.

— Non solo alla tua età — feci. — È importante sempre.

— Ma alla mia ci stai più male — replicò. — Quando sai che stanno organizzando una festa, e nessuno ti invita. — Distolse lo sguardo, non verso il sangue, ma verso la nuda parete d’acciaio.

— Certo. Ti capisco molto bene — dissi. Mi fissò con aria incoraggiante. — Alla tua età, anch’io ero diverso. Ho dovuto impegnarmi molto per far finta di essere come gli altri.

— Lo dici tanto per dire.

— No — replicai. — È vero. Mi toccava imitare i bambini più tosti, ho dovuto imparare a fingermi un duro, persino imparare a ridere.

— Come — fece lei con un altro dei suoi sorrisetti — non sei capace di ridere?

— Adesso sì.

— Vediamo.

Mi esibii in una delle mie facce perfettamente allegre e in una delle mie risatine da bravo ragazzo.

— Ehi, ma ti è venuto benissimo — disse.

— Anni di pratica — replicai con modestia. — All’inizio invece mi veniva malissimo.

— Ah-hah, bene. Io invece sto continuando a farne, di pratica. Ed è molto più difficile che imparare a sorridere.

— Perché voi adolescenti siete egocentrici — le dissi. — Pensate che le cose che vi capitano siano le più dure. Ma il fatto è che diventare essere umani è duro per tutti e lo è sempre stato. Specie per chi non lo è.

— Io penso di esserlo — mormorò Samantha. — Solo di una specie diversa dagli altri.

— D’accordo. — Ammetto che la cosa stava cominciando a intrigarmi. Mi domandai che tipo di persona fosse veramente. — Comunque non c’è niente di negativo. E, se hai un po’ di pazienza, vedrai che si trasformerà in qualcosa di positivo.

— Okay — disse.

— Ma se non esci di qui, non puoi fare nulla… Restare in questo posto è una soluzione permanente a un problema temporaneo.

— Bella questa.

Aveva ripreso a fare l’impertinente, e la mia nuova sensibilità umana ne risentiva. Aveva cominciato a mostrarsi interessante e io mi ero aperto, avevo iniziato ad apprezzarla e a provare reale empatia nei suoi confronti. E ora eccola nascondersi di nuovo dietro a quella maschera da adolescente distaccata e strafottente. La cosa mi irritò non poco e provai il forte desiderio di prenderla a schiaffi. — Dannazione — saltai su. — Possibile che tu non capisca perché ti trovi qui? Questa gente ti vuole fare arrosto e poi mangiare!

Samantha distolse un’altra volta lo sguardo. — Sì, lo so — disse. — Perché è questo che voglio. — Tornò a fissarmi, con occhi grandi e umidi. — È il mio grande segreto.

28

È buffo pensare a quanti suoni si percepiscono quando si crede di restare nel più assoluto silenzio. Per esempio, sentivo il battito del mio cuore riecheggiare nelle orecchie e Samantha, accanto a me, respirare piano, ma, sopra tutto, il ronzio metallico della ventola che continuava a soffiare aria fredda nella cella. Percepii persino qualcosa che zampettava sotto la branda, forse una cimice o uno scarafaggio.

Nonostante tali assordanti rumori, il più fastidioso fu il suono dell’ultima affermazione di Samantha che rimbombava nella cella. Dopo un po’ cominciai a non cogliere il senso neanche di ogni singola parola, e la guardai.

Sedeva immobile, con il solito, insopportabile sorrisetto stampato in faccia. Se ne stava ingobbita, a fissare dritto davanti a sé, senza evitare del tutto il mio sguardo, curiosa della mia reazione. Non la sopportavo più.

— Perdonami — feci. — Ma quando ho detto che ti avrebbero mangiato e tu mi hai risposto che è quello che vuoi… che cosa diavolo intendevi?

Rimase zitta per qualche secondo, poi smise di sorridere e assunse un’espressione pensierosa e insieme sognante. — Quand’ero piccina — disse infine — mio padre era sempre via, per conferenze o simili. E quando tornava, per farsi perdonare, mi leggeva le storie. Le fiabe, sai. E quando arrivava al punto in cui l’orco o la strega divorava qualcuno, lo faceva anche lui. Faceva finta di mangiarmi il braccio o la gamba, e imitava anche i rumori. E quindi… cioè, io ero solo una bambina e mi divertivo un sacco e ripetevo: “Ancora, ancora”. E lui faceva: “Gnam, gnam”, e io ridevo come una matta e…

Si interruppe, tirandosi indietro un ciuffo di capelli dalla fronte. — Dopo un po’ — riprese, con più calma — cominciai a crescere. E… — scosse il capo e il ciuffo le ricadde sulla fronte; lo scostò un’altra volta — … e mi accorsi che non erano le storie a piacermi così tanto. Mi piaceva… che mio padre mi divorasse la mano. Più ci pensavo, più l’idea di essere mangiata si faceva largo dentro di me. Avevo bisogno di una strega o di… cioè… anche solo di qualcuno che mi arrostisse lentamente, mi facesse a bocconcini e mi mangiasse e… e che gli piacessi davvero, io, il mio sapore e…

Respirò a fondo e rabbrividì, ma non di paura. — Poi è arrivata la pubertà e tutto il resto. Tutte le mie amiche dicevano: “Oh, quel tipo… vorrei farci di tutto e mi farei fare qualunque cosa”, ma io non riuscivo proprio a capirle, non facevano altro che strillare, confrontare ragazzi e… Perché io avevo un solo pensiero, volevo una cosa soltanto, cioè essere mangiata. — Agitava ritmicamente il capo e parlava con voce bassa e roca. — Voglio essere arrostita viva, lentamente, per poter vedere la gente che mi mastica e fa: “Mmmh”, e ne prende un altro pezzo, finché…

Riprese a tremare e si tirò la coperta sulle spalle, abbracciandosi forte. Cercai qualcosa da dire, che non fosse se aveva già valutato di sottoporsi a una terapia psichiatrica. Non mi venne in mente nulla, se non uno dei commenti preferiti di Deborah.