Non era granché, ma avevo imparato che, esaminando attentamente la situazione, si può trovare un modo per aumentare le proprie possibilità di riuscita. Mi alzai e mi guardai intorno, nel caso che qualcuno avesse dimenticato un fucile d’assalto su uno scaffale. Mi sforzai persino di spostare i barattoli per sbirciarci dietro, ma senza fortuna.
— Ehi — fece Samantha. — Se pensi di… cioè, io non voglio salvarmi.
— Fantastico — dissi. — Io invece sì. — La guardai, avvolta nella sua coperta. — Non voglio essere mangiato. Ho una vita, e una famiglia. Mi è appena nata una figlia — spiegai — e voglio riabbracciarla. Vederla crescere, leggerle le fiabe.
Samantha trasalì lievemente, sembrava confusa. — Come si chiama? — domandò.
— Lily Anne. — Distolse di nuovo lo sguardo. Notai che era combattuta, e calcai un po’ la mano. — Samantha — dissi — qualunque cosa tu voglia fare, non hai il diritto di costringere anche me. — Mi sentii molto falso a farle la predica, ma dopo tutto la posta in gioco era terribilmente alta e, in ogni caso, avevo passato gran parte della mia esistenza a fare l’ipocrita.
— Ma… io lo desidero — disse. — Cioè, è da una vita che…
— Lo desideri al punto da ammazzarmi? — chiesi. — Perché è questo che stai facendo.
Mi fissò, e abbassò rapidamente lo sguardo. — No. Ma…
— Sì, ma — replicai. — Se non riuscirò ad avere la meglio sui tizi che verranno a darti da mangiare, sarò morto, e lo sai.
— Non ci posso rinunciare.
— Non sei obbligata — le dissi. Mi scrutò attentamente. — Tu puoi restare qui, basta che mi lasci scappare.
Si morse il labbro per qualche secondo. — Non so — fece. — Cioè, come faccio a fidarmi? Chi mi assicura che non lo dici alla polizia, che poi mi viene a prendere?
— Prima che io torni con la polizia — dissi — ti avranno già portato da un’altra parte.
— Vero. — Annuì lentamente. — Ma chi mi dice che tu non vuoi trascinarmi via di qui, sai… per salvarmi da me stessa?
Mi inginocchiai ai suoi piedi. Facevo il melodrammatico, lo so, ma era una ragazzina e forse ci sarebbe cascata. — Samantha — dichiarai. — Permettimi soltanto di provarci. Se non fai nulla, io non cercherò di portarti via contro la tua volontà. Ti do la mia solenne parola d’onore. — Non udii alcun fragore di tuono, né l’eco di una risata lontana e, nonostante avessi collezionato di recente parecchie emozioni sgradevoli, non provai alcuna vergogna. Anzi, la mia performance mi parve decisamente convincente. Era infatti la recita della mia vita. Stavo mentendo, ovviamente, ma in quella situazione le avrei volentieri promesso di fare un giro sul mio disco volante, se mi fosse servito a uscire di lì.
Samantha stava cominciando a ragionare. — Be’… non so. Cioè, insomma. Devo solo stare seduta qui senza dire niente? E basta?
— E basta — ripetei. Le presi la mano e la guardai dritto negli occhi. — Ti prego, Samantha — mormorai. — Fallo per Lily Anne. — Ero proprio senza vergogna, ma, con mia sorpresa, mi accorsi che ci stavo credendo. E, ancora peggio, avevo gli occhi velati. Forse avevo preso un po’ troppo sul serio il metodo Stanislavskij, che ora stava pure interferendo con la mia visuale, producendo effetti estremamente spiazzanti.
Ma anche estremamente efficaci.
— D’accordo — fece Samantha, porgendomi la mano. — Non dirò nulla.
Gliela strinsi. — Grazie — dissi. — Anche da parte di Lily Anne. — Anche questa era un po’ sopra le righe, ma per una situazione simile le istruzioni comportamentali sono così rare.
Mi alzai e impugnai il mio cacciavite. Non era molto, ma sempre meglio di niente. Andai alla porta e provai a posizionarmi di fianco allo stipite, in modo che, se prima avessero guardato dalla finestrella, non mi avrebbero visto. Scelsi il lato più vicino alla maniglia; la porta si apriva verso l’esterno, quindi avrebbero controllato più facilmente l’altro angolo. Dovevo sperare che non si accorgessero di nulla e, vedendo Samantha al suo posto sulla branda, entrassero senza alcuna diffidenza. Poi, con un po’ di fortuna, gli avrei rifilato un bel gancio e me la sarei svignata in quattro e quattr’otto.
Ero appiattito nel mio nascondiglio da circa cinque minuti, quando percepii un lontano vociare attraverso la spessa porta della cella. Trassi un profondo respiro e cercai di farmi ancora più piccolo. Guardai Samantha, che si leccò le labbra e annuì col capo. Ricambiai, poi sentii qualcuno girare la maniglia e la porta si spalancò.
— Ehi, maialetta — fece una voce, seguita da una risatina crudele. — Oink, oink.
Comparve un individuo con una borsa frigo di nylon rosso. Gli sbattei con violenza il manico del grosso cacciavite sul cranio e lui cadde in avanti, senza un grido. Veloce come un lampo, oltrepassai il corpo e mi precipitai fuori, con il cacciavite alzato, pronto a tutto…
… ma non al potente pugno che mi colpì in faccia, schiacciandomi contro la parete. Feci appena in tempo a riconoscere il nerboruto buttafuori dalla testa rasata che lui mi immobilizzò, piazzandomi l’avambraccio intorno alla gola, mentre Bobby Acosta, alle sue spalle, urlava: — Ammazza quel coglione!
Poi il buttafuori mi assestò un pugno sul mento delle dimensioni di un pianoforte, e io precipitai nel buio.
29
Mi trovavo in un luogo lontano, in cui sottili scintille di luce volteggiavano su un mare buio e sconfinato, e Dexter l’attraversava a nuoto, con le gambe pesanti come il piombo, le braccia rigide e una sgradevole sensazione di galleggiamento che mi dava la nausea. Per lungo tempo non percepii altro pensiero o sensazione, a parte di esistere, finché un suono ripetuto mi raggiunse da lontano per concretizzarsi in un’impressione molto forte, espressa da un’unica sillaba cristallina: Ahi! Divenni così consapevole che “Ahi” non era un termine mistico utilizzato per la meditazione, né una terra perduta citata nella Bibbia, ma l’unico mezzo per riassumere con efficacia il Dolore di Dexter, dalle spalle in su. Ahi…
— Forza, Dexter, svegliati — mormorò una voce femminile. Una mano fredda mi si posò sulla fronte. Non avevo idea di chi si trattasse e, a dire il vero, non mi parve così importante come il fatto che la mia testa fosse in preda a un dolore indescrivibile e il collo non si muovesse.
— Dexter, ti prego — insistette la voce. La mano fredda mi diede dei colpetti sulla guancia che, a rigor di termini, erano un po’ troppo forti per essere considerati educati, e a ogni colpetto un’ondata di ahi riecheggiava nella mia testa.
Riacquistai infine il controllo delle braccia e ne utilizzai una per liberarmi dalla mano che mi martellava. — Ahi — mi uscì, e il mio lamento risuonò come il canto lontano di un uccello grosso e stanco.
— Sei vivo — disse la voce, e quella dannata mano riprese ad assestarmi colpetti sulla guancia. — Mi ero davvero preoccupata. — Quella voce dovevo averla già sentita, ma non sapevo dire dove, e in ogni caso non era la mia priorità al momento, visto che la mia testa era una specie di porridge fiammeggiante.
— Ahiii — ripetei, con più forza. Non riuscivo a dire altro, ma poco male, visto che riassumeva con eloquenza ciò che sentivo.
— Avanti — disse la voce. — Apri gli occhi, Dexter. Forza.
Riflettei su quella parola: “occhi”. Ero abbastanza sicuro di conoscerla. Se non sbagliavo, doveva avere a che fare con… uhm… con il vedere? Erano localizzati da qualche parte sulla faccia o giù di lì? Sì, doveva essere giusto; provai un piacere opaco e confuso. Una l’avevo azzeccata. Complimenti.