— Dexter, ti prego — ripetè la voce femminile. — Apri gli occhi, avanti.
Sentii di nuovo muoversi la sua mano, come per darmi un altro colpetto sulla guancia, e, all’idea, il senso di fastidio mi suscitò un ricordo: cioè che potevo aprire gli occhi proprio in quel modo. Ci provai. Il destro si spalancò all’istante, mentre il sinistro esitò un po’ di volte, infine un mondo offuscato mi si materializzò dinanzi. Sbattei le palpebre, finché non misi a fuoco quello che avevo davanti, di cui però non riuscii a comprendere il senso.
A neanche mezzo metro da me scorsi una faccia. Non aveva l’aria cattiva ed ero abbastanza certo di conoscerla. Era una donna, giovane e dall’aria ansiosa, che però, mentre tentavo di ricordarmi chi fosse, mi sorrise.
— Ehi, eccoti qui — disse. — Mi hai fatto tanto preoccupare.
Sbattei di nuovo le palpebre; stavo facendo troppi sforzi, più di quanti ne potessi tollerare. Mettermi pure a pensare era eccessivo, così smisi almeno di sbattere le palpebre. — Samantha — mormorai con voce impastata, e mi sentii subito molto fiero di me. Ecco il nome a cui corrispondeva quella faccia, che tra l’altro era a così poca distanza dalla mia perché avevo la testa sulle sue ginocchia.
— In persona — disse. — Felice di riaverti qui.
I particolari affiorarono lentamente nel mio cervello pulsante: Samantha, i cannibali, la cella frigo, quel pugno spropositato… Mi dovetti impegnare, ma riuscii a connettere i diversi eventi e poco per volta tracciai un quadro dell’accaduto, che si rivelò essere assai più doloroso della mia testa. Chiusi di nuovo gli occhi. — Ahiii — gemetti.
— Sì, l’hai già detto — fece Samantha. — Non ho nessuna aspirina o roba simile, ma se ti può servire… tieni. — La sentii piegarsi leggermente in basso e aprii gli occhi. Stringeva una grossa bottiglia di plastica; svitò il tappo. — Bevine un sorso — disse. — Piano. Non troppo, che ti fa male.
Obbedii. L’acqua era fresca e dal retrogusto indefinibile. Mentre la buttavo giù, mi accorsi di quanto avessi la gola secca e irritata. — Ancora — dissi.
— Poco alla volta — rispose Samantha, e me ne lasciò bere un altro piccolo sorso.
— Bene — feci. — Avevo sete.
— Wow — commentò lei. — Tre parole di fila. Ti sei proprio ripreso. — Bevve anche lei, e rimise a terra la bottiglia.
— Posso averne ancora un po’? — chiesi, e aggiunsi: — Sono cinque parole.
— Sicuro — rispose Samantha. Sembrava lieta della nuova abilità che avevo acquisito. Mi avvicinò la bottiglia alle labbra e ne bevvi un altro sorso. Sentii sollievo alla gola e al mio mal di testa, e insieme provai la crescente consapevolezza che le cose non stavano andando esattamente per il meglio.
Mi voltai per guardarmi intorno e ottenni in cambio una scarica di dolore dal collo fino alla cima della testa. Riuscii però a vedere anche qualcosa in più oltre al viso di Samantha e alla sua camicetta, il che non fu incoraggiante. Sopra le nostre teste, un neon fluorescente illuminava una parete verdastra. Nel posto in cui sarebbe stato logico trovare una finestra c’era una lastra di compensato grezzo. Altro non si vedeva, a patto di non muovere ulteriormente il capo, cosa che non mi sognai di fare, visto il dolore lancinante appena sperimentato.
Posizionai lentamente la testa nella posizione di prima e tentai di riflettere. Non riconobbi l’ambiente che mi circondava, ma almeno non mi trovavo più nella cella frigorifera. Percepii uno sferragliare meccanico e, come ogni abitante della Florida che si rispetti, riconobbi il suono del condizionatore. Ma né quello né il compensato mi fornirono indizi rilevanti.
— Dove siamo? — domandai.
Samantha deglutì una sorsata d’acqua. — In una roulotte — fece. — Da qualche parte nelle Everglades, non so. Uno di quelli del sabba possiede una cinquantina di ettari di terreno e ci tiene queste roulotte, per andare a caccia. Ci hanno portati qui così siamo del tutto isolati. Quaggiù non ci troverà nessuno. — La cosa sembrava rallegrarla, ma poi si ricordò che doveva sentirsi almeno un po’ in colpa e cercò di mascherare la gioia con un’altra sorsata.
— Come? — Avevo di nuovo la gola impastata, e allungai la mano in cerca della bottiglia. Stavolta bevvi parecchio. — Come hanno fatto a portarci fuori dal club, senza che nessuno ci vedesse? — feci.
Agitò la mano, facendomi sobbalzare la testa. Il movimento era leggero, ma il dolore inimmaginabile. — Ci hanno infilato dentro a dei tappeti — spiegò. — Poi sono arrivati due tipi in tuta da lavoro, hanno trasportato fuori i tappeti, li hanno gettati su un furgone e ci hanno condotti via. “Pulizia Tappeti Gonzalez”, c’era scritto. Semplice. — Sorrise, strinse le spalle e trangugiò un’altra sorsata.
Ragionai. Se Deborah fosse rimasta appostata, si sarebbe di certo insospettita nel veder uscire due grossi fagotti. E in questo caso, conoscendola, sarebbe saltata giù dalla macchina con la pistola spianata e li avrebbe bloccati. Dunque voleva dire che se n’era andata. Ma com’era possibile? Davvero avrebbe abbandonato il suo diletto fratello, lasciandolo in balia di un destino peggiore della morte, ma non esente da essa? Non credo che l’avrebbe fatto, almeno non volontariamente. Bevvi un altro sorso e tentai di riflettere. Debs non mi avrebbe mai abbandonato volontariamente. D’altro canto, non sarebbe stata neanche in grado di chiamare rinforzi: il suo socio era morto, e il suo comportamento stava andando lievemente tanto contro le regole del dipartimento, quanto contro il codice penale della Florida. Che cos’avrebbe fatto?
Trangugiai un’altra sorsata. Ora la bottiglia era mezzo vuota, ma il mio mal di testa sembrava essersi calmato un pochino. Non che il dolore se ne fosse andato, per carità, ma non potevo comunque lamentarmi. Avere dolore voleva dire essere vivi e… “Quando c’è vita c’è speranza”… chi era che lo diceva? Forse Samantha se ne ricordava. Stavo per domandarglielo, quando lei mi prese la bottiglia di mano per bere. Mi ricordai allora che stavo cercando di ricostruire che cos’avesse fatto mia sorella e perché io fossi finito lì.
Mi rimpossessai della bottiglia e bevvi ancora un po’. Deborah non mi avrebbe abbandonato. Sicuro. Deborah mi amava. Una consapevolezza si fece strada dentro di me: l’amavo anch’io. Buttai giù un’altra sorsata. L’amore è strano. Certo, accorgersene alla mia età suonava piuttosto buffo, ma ero stato circondato da così tanto amore… A partire dai miei genitori adottivi, Harry e Doris: visto che non ero il loro vero figlio, non erano tenuti ad amarmi, ma l’avevano fatto lo stesso. E così tanti altri, da allora fino ad adesso: Debs… e Rita, Cody, Astor e Lily Anne. Magnifica, adorata, magica Lily Anne, ultima portatrice d’amore. Ma anche tutti gli altri mi amavano, sebbene a modo loro…
Samantha prese la bottiglia e, mentre beveva, ebbi un’intuizione terribile: persino lei aveva dimostrato di amarmi. Aveva rischiato di perdere ciò a cui teneva di più, e che aveva sempre sognato, soltanto per darmi la possibilità di scappare! Non era forse questo un atto di puro amore?
Mandai giù un’altra sorsata. Mi sentivo attorniato da splendide persone, persone che mi amavano nonostante avessi combinato cose davvero brutte. Ma, diamine, ora avevo smesso, non vi pare? Non avevo forse il diritto di condurre una vita virtuosa e responsabile, in un mondo che all’improvviso si era illuminato di gioia e di meraviglia?
Samantha afferrò la bottiglia e bevve una gran sorsata. Me la restituì e io la finii, avidamente. Era deliziosa, la migliore che avessi mai bevuto. O forse stavo solo cominciando ad apprezzare di più le cose. Sicuro. Dopo tutto, il mondo era un luogo davvero straordinario e io mi ci stavo ambientando alla perfezione. E pure Samantha. Che persona splendida. Anche senza averne l’obbligo, si era persino presa cura di me. E continuava a farlo, anche adesso! I suoi colpetti al mio viso e le sue attenzioni erano dettate soltanto dall’amore: che ragazza meravigliosa! E se desiderava essere mangiata quel continuo toccarmi non era altro che una manifestazione del suo desiderio… wow. Il cibo è amore… dunque voler essere mangiati era un altro modo di condividere l’amore! E Samantha doveva aver scelto proprio questa via perché era così colma d’amore da non riuscire a esprimerlo in nessun’altra forma! Incredibile!