La rivalutai. Avevo davanti una persona splendida e generosa. E, anche se il collo mi faceva male, dovevo dimostrarle di aver compreso il suo gesto e che l’apprezzavo davvero. Così alzai la mano e l’avvicinai al suo viso. La sua pelle era morbida, tiepida, vitale. Le accarezzai delicatamente la guancia, per qualche istante. Mi guardò e sorrise, ricambiando la carezza.
— Sei così bella — mormorai. — Anche se la parola “bella” ti descrive solo in superficie, perché si riferisce a qualcosa di esteriore e non esprime esattamente quel che io intendo per bellezza… specie nel tuo caso, perché credo di aver capito che cosa rappresenta per te questa faccenda di farti mangiare… Cioè, sei bella anche fuori, ovvio; non volevo diminuire il tuo fascino, so quanto conta l’aspetto esteriore per una ragazzina. Anzi, una donna. Hai diciotto anni; sei una donna, lo so, perché hai fatto una scelta da adulta, una scelta da cui non si può tornare indietro, e in questo senso ti sei comportata da grande, perché sono certo che ti rendi conto delle conseguenze. E non c’è una definizione migliore di adulto: prendere una decisione estrema da cui sai di non poter tornare indietro. Hai la mia massima ammirazione per questo. E anche perché sei veramente, ma veramente bella.
Samantha mi accarezzò il viso, poi la sua mano scivolò lungo il colletto della camicia e sul petto. Mi faceva sentire bene. — So bene che cosa intendi dire, e sei la prima persona che capisce davvero che cosa significa per me tutto questo… — Mi tolse la mano dal petto e l’agitò in aria, per indicare quello che avevamo intorno, ma io la presi e gliela rimisi dov’era prima, perché mi piaceva troppo e mi era venuta voglia di toccarla. Lei sorrise e tornò ad accarezzarmi. — Lo so che non è facile da capire, ed ecco perché non ne ho mai parlato con nessuno, ed è per questo che ho passato gran parte della mia vita in solitudine, anzi, tutta la vita… perché chi è che avrebbe mai capito una cosa simile? Cioè, se avessi detto a qualcuno “Voglio essere mangiata”, se ne sarebbe saltato su con un: “Oddio, devi andare da uno strizzacervelli”, e nessuno mi avrebbe mai più considerato una persona normale, mentre a me non sembra che ci sia niente di strano, il mio è un modo totalmente normale di esprimere…
— Amore — feci.
— Tu sì che mi capisci! — Fece scivolare la mano più in basso, sul mio stomaco, poi tornò a posarla sul petto. — Oh mio Dio, lo sapevo che ci saresti arrivato, perché anche quand’eravamo nella cella frigo sentivo che eri diverso da tutti gli altri che avevo incontrato nella mia vita e mi ero detta: chissà se per una volta potrò mai parlare con una persona che mi capisce davvero e non mi guarda come se fossi una freak mostruosa e deviata!
— No, no, tu sei così bella — feci. — Nessuno potrà mai pensare di te una cosa simile, anche soltanto il tuo viso è stupendo…
— No, ma io non…
— Lo so, non è quello che intendevi — dissi. — Ma il tuo viso è un aspetto di te che rispecchia tutto il resto: cioè, se uno non è del tutto idiota non può non guardare il tuo viso e non pensare: “Wow, questa è una persona incredibile”, e poi accorgersi che quel che hai dentro è ancora più sorprendente. — Infine, visto che le semplici parole non bastavano a esprimere ciò che sentivo, e ci tenevo davvero che lei lo capisse, avvicinai il suo viso al mio e la baciai. — Sei bella dentro e fuori — le mormorai.
Mi rivolse un sorriso così caldo e colmo di gratitudine che ebbi l’impressione che tutto sarebbe andato per il meglio. — Anche tu — disse, poi si abbassò e mi baciò di nuovo. Stavolta il bacio durò di più. Mi accorsi di provare una sensazione nuova e che anche lei la provava, ma nessuno dei due si interruppe, anzi, lei si sdraiò sul pavimento accanto a me e continuammo a lungo, finché Samantha non si fermò per un istante e disse: — Forse ci hanno messo qualcosa nell’acqua.
— Non ha importanza — feci. — Perché quel che abbiamo capito non dipende da una sostanza sciolta nell’acqua, ma da qualcosa dentro di noi, dal nostro autentico sé, ed è qualcosa di vero, e so che anche tu lo senti. — La baciai e lei rispose per un minuto al mio bacio, poi si interruppe e mi avvicinò entrambe le mani alle guance.
— In ogni caso — disse — anche se c’era qualcosa nell’acqua, non conta niente, perché ho sempre pensato che tutto ciò fosse importante: l’amore, voglio dire. E non quello che uno sente, ma quello che uno fa, perciò credo che… cioè, ho diciotto anni; dovrei farlo almeno una volta prima di andarmene, non trovi?
— Almeno una — concordai.
Lei sorrise, chiuse gli occhi, avvicinò il viso al mio, e lo facemmo.
Più di una volta.
30
— Ho sete — fece Samantha, in tono piagnucoloso.
La cosa mi infastidì, ma non dissi nulla. Anch’io avevo sete. A che cosa serviva ripeterlo? Tutti e due ce l’avevamo. E da un po’. L’acqua era finita, e non ce n’era più. Ma era l’ultimo dei miei problemi: la testa mi faceva male, ero intrappolato in una roulotte nelle Everglades e avevo appena fatto qualcosa di cui non comprendevo il senso. Oh, e presto sarebbe anche arrivato qualcuno per uccidermi.
— Mi sento così stupida — disse Samantha. Anche stavolta, non avevo molto da dirle. Ora che l’effetto della sostanza sciolta nell’ acqua era passato, ci sentivamo entrambi stupidi, ma lei sembrava avere più difficoltà ad accettare ciò che avevamo fatto sotto l’effetto di droghe. Una volta tornati in noi, Samantha mi sembrò sempre più a disagio, poi nervosa, infine decisamente allarmata. Si era messa a rovistare in giro per la roulotte, in cerca dei vestiti che, in preda al trasporto, erano finiti un po’ dappertutto. Nonostante lo trovassi piuttosto imbarazzante, la imitai; li raccolsi anch’io e li indossai.
Insieme alle mutande, ritrovai anche un barlume del mio perduto raziocinio. Mi tirai su e ispezionai la roulotte, da una parte all’altra. Non ci misi molto. Non era lunga neanche una decina di metri. Alle finestre erano inchiodate assi di compensato spesse due centimetri. Battei contro con il pugno. Mi ci buttai addosso con tutto il mio peso. Non si mossero. Dovevano essere state rinforzate dall’esterno.
C’era soltanto una porta. Stessa storia. Provai anche a prenderla a spallate, con l’unico risultato che la testa mi fece ancora più male. E ora avevo anche male alla spalla. Mi sedetti per qualche minuto, tentando di riprendermi dal dolore. Fu in quel momento che Samantha si mise a piagnucolare. Era come se, dopo essersi rivestita, si sentisse autorizzata a lamentarsi praticamente di tutto, e non soltanto che fosse finita l’acqua. Per di più, non so se per colpa di qualche crudele gioco di acustica o se per pura sfortuna, l’eco della sua voce era perfettamente sincronizzato con il pulsare della mia testa. A ogni suo lamento, un’ondata di dolore sordo riaffiorava tra la devastata materia grigia del mio cranio.
— Sento puzza di… stantio — disse.
La sentivo anch’io, ricordava un misto di vecchio sudore, peli di cane bagnato e muffa. Ma non c’è niente di più inutile che lamentarsi di qualcosa quando non ci si può fare nulla. — In macchina dovrei avere un deodorante per auto — dissi. — Vado un attimo a prenderlo.