Samantha distolse lo sguardo. — Non mi sembra il caso di fare il sarcastico — commentò.
— No — feci. — Piuttosto è il caso di andarsene.
Non mi guardò, né reagì in alcun modo, il che mi sembrò una benedizione. Chiusi gli occhi, tentando di scacciare quel dolore opprimente. Non funzionò e, dopo un minuto, Samantha mi interruppe di nuovo.
— Vorrei che non l’avessimo fatto — disse.
Aprii gli occhi. Lei continuava a guardare da un’altra parte, in un insignificante angolo della roulotte. Era del tutto vuoto e disadorno, ma a quanto pareva più attraente della mia faccia.
— Mi dispiace — feci.
Strinse le spalle, sempre senza voltarsi. — Non è colpa tua — disse, con falsa magnanimità. — Sono sicura che dentro quell’acqua c’era qualcosa. Lo mettono sempre. — Alzò di nuovo le spalle. — Comunque l’ecstasy non l’ho mai provata.
Ci misi un attimo a capire che si riferiva alla droga. — Neanch’io — feci. — Dici che era quella?
— Ne sono abbastanza sicura — dichiarò. — Almeno da quanto ho sentito dire. Tyler se ne fa… se ne faceva tanta. — Scosse il capo e arrossì. — Comunque. Mi aveva raccontato che ti faceva venir voglia di… cioè, di toccare tutti e… sai. Di essere toccata.
Se quello era l’effetto dell’ecstasy, non potevo darle torto. Senza contare che o ne avevamo presa in gran quantità, oppure era una droga incredibilmente potente. Ripensai a quello che avevo detto e fatto e quasi me ne vergognai. Una cosa era cercare di diventare un po’ più umano, un’altra oltrepassare il limite e comportarsi da coglione. Forse avrebbe dovuto chiamarsi eccess-stasy. A posteriori, fui molto felice di poter dare la colpa a una droga. Pensare di essermi comportato in un modo così grottesco non mi piaceva.
— In ogni caso, lo dovevo fare — continuò Samantha, ancora paonazza. — Non ne sentirò la mancanza. — Strinse di nuovo le spalle. — Non era poi quella gran cosa.
Non ero un grande esperto di quelle che chiamano “chiacchiere da letto”, ma quel genere di onestà non lo ritenni comunque elegante. Per quel poco che ne sapevo, ero convinto che si dovessero esprimere frasi lusinghiere, anche quando lo si fosse ritenuto un fiasco. Tipo: “È stato bellissimo, non inquiniamo il ricordo tentando di ripetere la stessa magia”. Oppure: “Sembrava di essere a Parigi”. In questo caso, “Sembrava di essere in quell’orribile e puzzolente roulotte nelle Everglades” non aveva esattamente lo stesso impatto, ma almeno Samantha ci poteva provare. Forse quello era un modo per vendicarsi del suo forte malessere, o forse lo pensava davvero e, essendo giovane e inesperta, non sapeva che quelle cose non si dicono.
Comunque, le sue rimostranze si associarono al mio mal di testa, suscitando in me un’insospettata vena di crudeltà. — Hai ragione, non è stata quella gran cosa — dissi.
Stavolta si voltò verso di me, con un’espressione molto vicina alla rabbia, ma non disse nulla e tornò a guardare dall’altra parte.
Finii di stiracchiarmi, mi massaggiai il collo e mi alzai. — Una via d’uscita ci dev’essere. — Lo dissi più che altro a me stesso, ma lei rispose ugualmente.
— No, non c’è — fece. — Questa roulotte è a prova di scasso. Ci hanno sempre rinchiuso la gente e nessuno è mai riuscito a fuggire.
— Se erano sempre drogati, non sappiamo se ci hanno davvero provato.
Samantha socchiuse gli occhi e scosse adagio la testa, come se avesse a che fare con uno stupido, poi si voltò. Forse stupido lo ero anche, ma non al punto da starmene lì seduto ad aspettare che mi venissero a mangiare. Non senza fare il possibile per scappare, almeno.
Ispezionai di nuovo la roulotte. Non c’era niente di nuovo da vedere, ma controllai il tutto più attentamente. Non c’erano mobili, ma sul fondo notai una panca incassata nella parete che doveva fare le veci di un letto. Sopra c’era una striscia sottile di gommapiuma, coperta da un logoro lenzuolo grigio. Rovesciai il materasso sul pavimento e misi a nudo un quadrato di compensato che copriva un’apertura. Lo sollevai. Sotto c’era uno scomparto metallico. Conteneva un cuscino molto basso, con la federa intonata al lenzuolo. Il vano sembrava piuttosto largo, anche se nel buio non se ne percepiva il fondo.
Tirai fuori il cuscino. Nello scomparto restava soltanto un pezzo di legno, lungo neanche mezzo metro. A un’estremità la punta era smussata e sporca di terra. Sull’altra c’erano parecchie tacche e un solco inciso nel legno, forse da una corda. Per chissà quale arcano motivo, il legno doveva essere stato usato come picchetto, piantato a martellate nel terreno per reggere qualcosa tramite una corda. Vi era anche conficcato un chiodo vecchio e ricurvo a cui attaccare la corda. Presi il pezzo di legno e lo poggiai accanto al cuscino. Infilai il più possibile la testa nello scomparto, ma non vidi altro. Premetti il fondo e lo trovai leggermente elastico; allora premetti più violentemente e fui ricompensato dalla cedevole sensazione del metallo che si piega.
Bingo. Gli assestai un colpo e il metallo si incrinò visibilmente. Tirai fuori la testa e uscii dal vano, per poi infilarci dentro entrambi i piedi. Entravo a malapena nell’apertura, ma era sufficiente e mi misi a saltare più energicamente che potevo. Rimbombava fortissimo, e al settimo rimbombo Samantha venne a vedere che cosa succedeva.
— Che cosa fai? — domandò. Oltre che piagnucolosa, era anche stupida.
— Sto scappando — risposi, e saltai di nuovo, con forza.
Mi guardò mentre continuavo a saltare, poi scosse la testa, perplessa, e alzò la voce, in modo che nonostante il rumore potessi percepire lo stesso la sua negatività. — Non credo che ci riuscirai — dichiarò.
— Qui il metallo è più sottile — spiegai. — A differenza del pavimento.
— Ma entra in gioco la resistenza alla trazione — asserì a voce alta. — Come la tensione di superficie in una tazza d’acqua. L’abbiamo studiato in fisica.
Per un secondo il pensiero di una lezione di fisica che insegnasse agli studenti a calcolare la resistenza alla trazione del pavimento di una roulotte quando stai per scappare da un festino cannibale mi lasciò interdetto, e mi bloccai in fase di salto. Forse Samantha aveva ragione: non per niente la Ransom Everglades era una scuola prestigiosa in cui probabilmente insegnavano cose che la scuola pubblica non trattava. Uscii dall’armadio e controllai il risultato dei miei sforzi. Niente di che. Era visibilmente ammaccato, ma non al punto da farmi nutrire qualche speranza.
— Prima che tu riesca a sfondarlo saranno qui — disse. Con un po’ di cattiveria, si sarebbe potuto asserire che stava gufando.
— Può darsi — feci, e mi cadde l’occhio sul paletto. Non esclamai propriamente “Ah-ha!”, ma sperimentai uno di quei momenti in cui ti si illumina la lampadina. Presi in mano il pezzo di legno ed estrassi il vecchio chiodo. Ne infilai la testa in una fessura sulla punta del paletto e lo conficcai nel centro dell’ammaccatura sul fondo dello scomparto. Poi lanciai un’occhiata eloquente a Samantha, e cominciai a battere più forte che potevo sulla sommità del legno.
Faceva male. Tre schegge mi penetrarono nella mano.
— Ah — fece Samantha.
Si dice che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Per analogia potrei dire che dietro a ogni Dexter che fugge c’è sempre una Samantha che lo molesta, perché il suo gioire dinanzi ai miei fallimenti mi stimolava a ideare stratagemmi Sempre nuovi. Mi tolsi una scarpa, la sistemai sulla cima del paletto e riprovai a battere. Non mi faceva troppo male ed ero certo che con un po’ di forza sarei riuscito a bucare il pavimento del vano.
— Ah lo dico io — replicai.
— Vabbè — fece Samantha, e tornò a sedersi dov’era prima, nel mezzo della roulotte.