Mi rimisi al lavoro, sbattendo la suola della scarpa con tutta la mia forza. Mi fermai dopo un paio di minuti e osservai il risultato; l’ammaccatura era più profonda e ai lati la lastra sembrava sollecitata. Il chiodo era penetrato nel metallo; poco dopo notai un forellino. Mi impegnai, e nel giro di un altro paio di minuti il suono sembrava cambiato. Tolsi il paletto e diedi un’occhiata.
C’era un piccolo buco, largo abbastanza da permettermi di vedere la luce del giorno sotto la roulotte. Con un po’ di tempo e di sforzo ero sicuro di riuscire ad allargare il buco e tagliare la corda.
Rigirai il più possibile la punta del paletto nell’apertura e battei ancora più forte. Lo sentii che penetrava lentamente e lo colpii con maggior vigore; il legno si piantò di parecchi centimetri. Smisi di martellare e presi a muovere il paletto avanti e indietro, deformando il metallo per allargare il più possibile il buco. Provai in tutti i modi a fare leva; mi rimisi persino la scarpa e assestai calci al pezzo di legno. Dopo una ventina di minuti la lamiera della roulotte si arrese ed ebbi finalmente una via d’uscita.
Mi fermai ad ammirare la breccia. Ero esausto, dolorante e madido di sudore, ma a un passo dalla libertà.
— Sono salvo — gridai a Samantha. — Questa è la tua ultima possibilità di scappare.
— Ciao ciao — rispose lei. — Buon viaggio. — Dopo tutto quel che era successo tra noi, la trovai un po’ freddina, ma da lei non dovevo aspettarmi di più.
— Okay — dissi. Entrai nello scomparto e infilai le gambe nel foro che avevo fatto. Sentii i piedi toccare terra, poi mi contorsi per far passare anche il resto. Era molto stretto; camicia e pantaloni mi si agganciarono ai bordi metallici e si strapparono. Alzai le mani sopra la testa e continuai a contorcermi, finché dopo un po’ mi ritrovai seduto sul sudicio e tiepido suolo delle Everglades. Avevo i pantaloni inzuppati, ma mi sentivo incredibilmente meglio di quando ero sul pavimento della roulotte.
Trassi un profondo respiro; ero libero. Intorno a me c’era un blocco di cemento che teneva il veicolo sollevato dal suolo. Notai due spazi vuoti, uno all’altezza dell’ingresso e l’altro dal lato opposto. Mi rotolai sulla pancia e strisciai in quella direzione.
Avevo appena fatto capolino alla luce del giorno e cominciato ad assaporare la libertà, che una mano enorme mi afferrò per i capelli. — Adesso basta, coglione — ringhiò una voce, poi mi sentii sollevare in alto fino a sbattere il cranio contro la roulotte.
Nonostante la mia testa già dolorante fosse impegnata a vedere le stelle, riconobbi il mio vecchio amico, il buttafuori dalla testa rasata. Mi aveva inchiodato contro il fianco del veicolo e, come era accaduto quando mi aveva ridotto KO nella cella frigorifera, mi immobilizzò piazzandomi l’avambraccio sulla gola.
Riuscii a vedere che la roulotte si trovava in una piccola radura, circondata dalla lussureggiante vegetazione delle Everglades. Da un lato scorreva un canale, e numerose zanzare si avventarono allegramente addosso a noi, ronzando. Da qualche parte risuonò il canto di un uccello. E da un sentiero, al limitare della radura, comparve Kukarov, il manager del club, seguito da due brutti ceffi. Uno portava una borsa frigo, l’altro una tracolla di pelle.
— Ehi, porcellino — fece Kukarov con un ghigno davvero disgustoso. — Dove credevi di andare?
— Avevo un appuntamento dal dentista — spiegai. — Non potevo proprio mancarlo.
— Spiritoso — disse Kukarov, e il buttafuori mi assestò uno schiaffone. Vista la collezione di emicranie che mi ritrovavo, mi fece più male del dovuto.
Chi mi conosce bene sa che Dexter non perde mai la calma, ma quando è troppo, è troppo. Alzai rapidamente il piede e sferrai un violento calcio nell’inguine al buttafuori con una forza che lo costrinse a lasciarmi andare e a piegarsi in avanti dalla nausea. Ringalluzzito dalla facilità con cui avevo ottenuto il risultato, mi voltai verso Kukarov con le braccia in posizione da combattimento.
Ma lui aveva una pistola e me la puntò esattamente in mezzo agli occhi. Era un’arma molto grossa e costosa, a prima vista avrei detto una Magnum.357. Il cane era armato e gli occhi di Kukarov erano più bui dell’interno della canna.
— Avanti — fece. — Provaci.
Come suggerimento era invitante, ma decisi di non seguirlo e alzai le mani. Mi scrutò per un istante, poi indietreggiò di qualche passo, sempre senza staccarmi gli occhi di dosso, e si rivolse agli altri. — Legatelo — disse. — Dategli qualche botta, ma senza danneggiare la carne. Stavolta avremo un porcello maschio.
Uno dei due mi afferrò e mi mise le mani dietro la schiena, così forte da farmi male, mentre l’altro cominciò a svolgere il nastro isolante dal rotolo. Mi aveva appena stretto i polsi quando udii quello che mi parve il più bel suono che avessi sentito in vita mia: lo stridio di un megafono e Deborah che vi parlava attraverso.
— Polizia — dichiarò. — Siete circondati. Gettate le armi e faccia a terra.
I due aiutanti sobbalzarono e si voltarono verso Kukarov, sbalorditi. Il buttafuori era ancora in ginocchio, in preda a conati di vomito.
Kukarov ringhiò: — Io l’ammazzo quel coglione! — Poi alzò la pistola e avvicinò il dito al grilletto.
Un proiettile attraversò l’aria e metà della sua testa scomparve. Si afflosciò bruscamente da un lato, come una marionetta, e crollò al suolo.
Gli altri due cannibali si gettarono a terra all’unisono e anche il buttafuori si abbassò. Deborah balzò fuori dalla vegetazione sul bordo della radura e mi corse incontro, seguita da almeno una dozzina di agenti, tra i quali una squadra speciale dell’SRT armata fino ai denti e il detective Weems, il gigante d’ebano della polizia tribale miccosukee.
— Dexter! — esclamò Deborah. Mi strinse con forza le braccia e mi guardò per un istante. — Dex — ripetè. Notai una certa ansia dipinta sul suo viso e la cosa mi fece piacere. Mi diede qualche pacca sulle braccia e quasi sorrise, manifestazione decisamente rara per lei. Ovviamente, visto che era pur sempre Debs, si premurò di far calare subito il pathos e chiese: — Dov’è Samantha?
Guardai mia sorella. Avevo la testa che mi pulsava, i pantaloni strappati, la faccia e la gola contuse dall’aggressione del buttafuori, ero imbarazzato per quello che avevo fatto e le mie mani erano ancora legate dietro la schiena. Senza contare che avevo sete. Ero stato picchiato, sequestrato, drogato, di nuovo picchiato e minacciato con un grosso revolver, il tutto senza un lamento. Ma Deborah pensava a Samantha, che se ne stava ben pasciuta al fresco del condizionatore, e attendeva ansiosa il suo turno, piagnucolando per ogni minimo disagio, mentre io ero uscito allo scoperto, esponendomi al fuoco nemico e a un incredibile numero di zanzare che le mani legate dietro la schiena mi impedivano di scacciar via.
Ma ovviamente Deborah era di famiglia, e comunque avevo le mani bloccate, così mollarle uno schiaffo era fuori discussione. — Sto bene, sorellina — dissi. — Grazie per il pensiero.
Come al solito, con Deborah era tempo sprecato. Mi scosse per le braccia. — Dov’è? — fece. — Dov’è Samantha?
Mi arresi con un sospiro. — Dentro la roulotte — dissi. — Sta bene.
Mi guardò per un istante, poi si precipitò come un turbine verso l’ingresso. Weems la seguì, e udii un potente scricchiolio, come se avesse scardinato la porta. Un attimo dopo mi passò davanti, con la manona che la reggeva per la maniglia.
Debs avanzava dietro di lui con un braccio intorno a Samantha. La conduceva verso la macchina, mormorando: — Ti ho trovato, adesso sei salva. — Mentre la ragazza, curva e ingrugnita, borbottava: — Lasciami in pace.
Mi guardai intorno. Nella radura un gruppetto di poliziotti con le divise dello Special Response Team stava ammanettando, senza troppi complimenti, gli scagnozzi di Kukarov.