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Infine il mio senso del dovere cominciò a tormentarmi. Rimisi dunque Lily Anne nel suo cestino, baciai Rita e uscii.

Non c’era molto traffico e mi diressi a mente leggera verso la Dixie Highway. Poi, quando imboccai la Palmetto Expressway, un senso di disagio mi colse, come se le cose non stessero andando come dovevano. Riportai dunque in carreggiata il potente cervello di Dexter, e riflettei. La soluzione arrivò molto rapidamente, non per merito della mia logica, ma del mio olfatto che intercettò uno strano odore proveniente dal sedile posteriore. Si trattava di un puzzo terribile, di qualcosa di vecchio, innominabile e in avanzato stato di putrefazione che fermentava e si decomponeva alla velocità della luce. Non sapevo di che cosa si trattasse, sapevo solo che era orribile e inarrestabile.

Alle mie spalle non vedevo nulla, neanche inclinando lo specchietto. Mentre mi dirigevo a nord, verso il lavoro, cercai di riflettere, finché uno scuolabus non mi tagliò la strada, costringendomi a concentrarmi sulla guida. Anche quando c’è poco traffico non bisogna distrarsi, non a Miami, così abbassai il finestrino e mi impegnai ad arrivare vivo al dipartimento.

Non appena entrai nel parcheggio e rallentai per infilare la macchina al mio posto, il puzzo si ripresentò. Ragionai. L’ultima volta che avevo guidato la mia auto era stato prima del salvataggio di Samantha al club, e prima di…

Chapin.

Avevo preso la macchina per giocare con Victor Chapin e, quando tutto era finito, avevo fatto sparire i suoi resti dentro alcuni sacchi dell’immondizia. Possibile che alcuni pezzetti fossero caduti fuori e si trovassero ancora qui, a marcire lentamente nel calore di una macchina chiusa tutto il giorno e a emanare quest’odore disgustoso? Impensabile, per una persona precisa come me. Ma che cos’altro poteva essere? L’odore non solo era spaventoso, ma peggiorava sempre più, e il mio panico ne amplificava le esalazioni. Inchiodai, guardai alle mie spalle e vidi…

Un sacco dell’immondizia. Non so come, ma dovevo averne dimenticato uno… Eppure era impossibile, non ero mai stato così stupido e distratto…

A meno che quella sera non mi fossi fatto sopraffare dalla fretta di sbrigarmi e andare a dormire. Così per colpa della mia pigrizia, della mia stupida ignavia e del mio egoismo, adesso mi trovavo qui, alla centrale di polizia, con un sacco pieno di resti umani dentro la macchina. Parcheggiai e uscii. Mentre aprivo la portiera posteriore ero talmente nel panico che il sudore mi gelava la schiena e mi colava lungo il viso. Mi chinai a guardare.

Sì, era proprio un sacco dell’immondizia. Ma come aveva fatto ad arrivare lì, mentre gli altri erano stati attentamente chiusi nel portabagagli, e poi…?

E poi un’auto parcheggiò nel posto accanto al mio. Un’altra fitta di panico e tentai di calmarmi, traendo un profondo sospiro. Non c’era nessun problema, non per me almeno. Chiunque fosse stato, gli avrei rivolto un cordiale saluto, lui sarebbe scomparso nel palazzo e io mi sarei allontanato in macchina, liberandomi dei resti di Chapin. Non era il caso di drammatizzare, ero sempre il buon vecchio Dexter, l’analista della Scientifica, e nessuno al dipartimento avrebbe avuto motivo di pensarla diversamente.

A parte l’uomo che uscì dall’auto e prese a scrutarmi, torvo. O, a essere precisi, i due terzi di uomo. Le mani e i piedi se n’erano andati, e lo stesso aveva fatto la lingua; infatti girava con un piccolo notebook portatile che l’aiutava a parlare. Mentre lo fissavo senza fiato, lui l’aprì e, senza staccarmi gli occhi di dosso, si mise a schiacciare i tasti per formulare una frase elettronica.

“Che-cosa-c’è-dentro-il-sacco?” chiese il sergente Doakes per mezzo del computer.

— Sacco? — feci. Delle mie uscite ammetto che non fu tra le migliori.

Doakes mi guardava irritato, non so se fosse soltanto perché mi odiava e aveva intuito la mia natura o perché mi vedeva accovacciato a terra a palpare un sacco pieno di resti. In ogni caso, un terrificante bagliore gli attraversò lo sguardo e prima che potessi fare qualcosa, oltre a fissarlo a bocca aperta, Doakes balzò in avanti, calò rapidamente l’uncino metallico e tirò fuori il sacco dalla macchina.

Lo scrutai terrorizzato e sempre più consapevole della mia fine imminente, mentre poggiava il notebook sul tettuccio, apriva il sacco e vi frugava all’interno, digrignando i denti trionfante, per estrarre un putrido, schifoso e puzzolente pannolino.

Osservai il volto di Doakes assumere tutta la gamma di espressioni dalla vittoria fino al totale disgusto, e allora ricordai. Quando ero uscito di casa per dedicarmi al mio improvvisato passatempo con Chapin, Rita mi aveva messo in mano il sacco con i pannolini sporchi. Nella fretta, mi ero riservato di gettarlo più tardi. Poi si erano susseguiti la morte di Deke, il mio rapimento, la terribile esperienza con Samantha, e tutto ciò aveva contribuito a farmi passare di mente quell’insignificante sacco colmo di pannolini. Però, man mano che il ricordo si faceva più chiaro, una crescente felicità mi invadeva, resa ancora più grande dalla consapevolezza che Lily Anne, quella splendida e magica bimba, la regina dei pannolini, la paladina della popò, la mia dolce Lily Anne con i suoi pannolini sporchi mi aveva salvato. E, come se non bastasse, aveva persino umiliato Doakes.

La vita era bella, e la paternità si dimostrava ancora una volta una splendida avventura.

Mi alzai e guardai Doakes, con un sorriso allegro. — Lo so, è roba tossica — dissi. — E forse viola anche un bel po’ di ordinanze comunali. — Tesi la mano per riprendere il sacco. — Ma la prego, sergente, non mi arresti. Prometto che la getterò via nel luogo idoneo.

Doakes staccò gli occhi dall’immondizia e me li puntò addosso. Mi fissò con un’espressione di disgusto mista a rabbia così intensa che per un attimo parve sopraffare il lezzo dei pannolini. Poi disse: — Brrrt strrnzz — e aprì l’uncino che reggeva il sacco, il quale cadde a terra. Un istante dopo anche il pannolino che stringeva nell’altro uncino fece la stessa fine.

— “Brrrt strrnzz”? — ripetei candidamente. — Che lingua è, tedesco?

Ma Doakes si limitò ad afferrare il notebook argentato dal tettuccio, voltare le spalle a me e ai pannolini sporchi e allontanarsi con passo pesante sui suoi due piedi artificiali.

Mentre se ne andava, provai un senso di sollievo totale e quando scomparve alla mia vista trassi un profondo respiro. Il che si rivelò un errore imperdonabile, visto ciò che giaceva ai miei piedi. Tossicchiando e sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime, mi chinai, rimisi il pannolino nel sacco, lo richiusi e lo gettai nel cassonetto.

Quando finalmente arrivai in ufficio era l’una e mezzo. Mi dedicai ad alcuni esiti di laboratorio, eseguii un test di routine allo spettrometro, ingoiai un orrendo caffè, finché non si fecero le quattro e mezzo. Mi stavo appena rallegrando per aver passato indenne il primo giorno dopo la mia cattura, quando entrò Deborah con una faccia spaventosa. Subito non afferrai, ma capii che qualcosa era andato terribilmente storto e che la stava prendendo sul personale. Visto che la conoscevo da una vita e sapevo come funzionava la sua testa, intuii che per Dexter erano in arrivo nuove complicazioni.

— Buon pomeriggio — la salutai allegro, pensando che il mio sorriso avrebbe neutralizzato il problema, qualunque fosse. Ovviamente, ciò non accadde.

— Samantha Aldovar — disse mia sorella, puntandomi lo sguardo addosso.

Tutte le ansie della sera precedente mi si rovesciarono addosso: lo sapevo, Samantha aveva parlato con Deborah e lei era venuta per arrestarmi. La mia irritazione nei confronti della ragazza crebbe in modo spropositato, non mi aveva nemmeno lasciato il tempo di elaborare una scusa decente. Neanche avesse avuto la lingua attaccata a una molla, che si era messa in funzione dal primo istante del suo salvataggio. Doveva aver cominciato a calunniarmi ancor prima che si chiudesse la porta di casa sua, e ora per me non c’era più niente da fare. Ero distrutto, finito, fottuto, stavolta nel senso letterale del termine. Ero colmo di ansia, apprensione, amarezza. Dov’era finita la buona, vecchia discrezione?