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— Deborah — dissi cauto — ti vedo un po’ agitata…

— Cazzo se sono agitata — replicò. — Mi spacco il culo per ritrovare Samantha, e lei scappa di nuovo… Ci scommetto che sarà da Bobby Acosta e che il bastardo la farà franca un’altra volta.

Per amor di precisione, Debs avrebbe dovuto dire che era stata lei a spaccarmi il culo perché ritrovassi Samantha, ma non era il momento di correggerla, e in ogni caso sospettai che su Bobby Acosta avesse ragione. Era colpa sua se la ragazza era stata coinvolta in quella faccenda ed era una delle ultime persone rimaste in grado di appagare il suo sogno. Quantomeno la questione mi offrì un diversivo per cavarmi da quell’imbarazzante momento, sempre se fossi riuscito a incentrare la conversazione su dove si trovasse Acosta, e non su quello che avrei dovuto fargli.

— Credo tu abbia ragione — dissi. — È stato Acosta a iniziare Samantha a tutto questo. E ora lei vorrà andare da lui.

Deborah continuava a restare in piedi, e a fissarmi con le guance paonazze e gli occhi di fuoco. — D’accordo — fece. — Scoverò quel piccolo bastardo. E poi…

A volte si può solo sperare in una tregua e in un cambio d’argomento, ed era quello che stava accadendo. Dovevo augurarmi che, nel cercare Acosta, Deborah si calmasse un pochettino e decidesse che gettare il suo criminale in pasto a Dexter non fosse la scelta più saggia. Magari avrebbe potuto sparargli di persona. In ogni caso, ero fuori dai guai, almeno per un po’.

— Okay — dissi. — Come hai intenzione di trovarlo?

Deborah si drizzò, gesticolando nel vuoto. — Parlerò con il suo vecchio — fece. — Deve capire che la cosa migliore che può fare suo figlio è presentarsi qui con un avvocato.

Il che poteva essere vero. Ma Joe Acosta era un uomo ricco e potente e mia sorella una tipa dura e cocciuta: un incontro tra due persone simili avrebbe avuto senso solo se una delle due fosse stata dotata di almeno un briciolo di tatto. Deborah non ne aveva mai avuto; forse non sapeva neanche che cosa fosse. Invece, a giudicare dalla sua reputazione, Joe Acosta doveva essere uno di quelli disposti a comprarne al momento del bisogno. E poi c’ero io.

Mi alzai. — Vengo con te — dissi.

Debs mi scrutò per un istante; pensai quasi che mi dicesse di no, per pura crudeltà, invece annuì. — Okay — fece, e uscì.

34

Come molta gente di Miami, gran parte di quello che sapevo su Joe Acosta l’avevo appreso dai giornali. Sembrava che fosse stato da sempre consigliere di contea, anche se di tanto in tanto sui media si coglievano brandelli della sua precedente esistenza. Era una di quelle belle storie edificanti in cui un ragazzo qualsiasi, nel suo caso un chico qualsiasi, visto che era cubano, si fa strada nella vita e diventa ricco.

Joe Acosta era arrivato a Miami dall’Avana su uno dei primi voli della speranza. A quel tempo era abbastanza giovane da potersi facilmente inserire tra gli americani, ma per un po’ aveva continuato a recitare il suo ruolo di immigrato per mantenere una buona posizione nella comunità cubana, il che gli aveva giovato parecchio. Durante il boom economico degli anni Ottanta si era dedicato al settore immobiliare investendo tutti i suoi profitti in una delle prime grandi aree di sviluppo urbano a South Miami. L’aveva rivenduta edificata nel giro di sei mesi. Allora la società immobiliare e di costruzione Acosta era una delle più grosse del Sud della Florida e quando giravi in macchina fuori città c’era un cartello con il loro nome stampato a ogni cantiere. Acosta aveva ottenuto così tanto successo che persino l’attuale tracollo finanziario non gli aveva provocato troppi danni. Naturalmente, non doveva contare soltanto sui suoi affari in campo edilizio. Poteva sempre ripiegare sullo stipendio di seimila dollari annui come consigliere di contea.

Joe era sposato da dieci anni in seconde nozze, ma il divorzio non sembrava aver infangato la sua immagine, perché continuava a essere molto agiato e a condurre una vita pubblica. Compariva spesso sui quotidiani, nella sezione riservata al gossip sulle celebrità, insieme alla nuova moglie. Questa era un’attraente anglosassone, autrice di pezzi techno-pop davvero orribili. Quando il pubblico si era reso conto della nefandezza della sua musica, la donna era venuta a Miami, aveva trovato Joe e si era dedicata alla placida esistenza di moglie trofeo.

Acosta aveva un ufficio in Brickell Avenue, e fu lì che lo trovammo. Occupava interamente l’ultimo piano di uno dei nuovi grattacieli di Miami, uno di quelli che nello skyline parevano enormi e affilati frammenti di un gigantesco specchio precipitato dallo spazio. Oltrepassammo la guardia all’ingresso e salimmo in cima su un ascensore lucente. Anche la sala d’attesa ultrachic di Acosta, tutta pelle e acciaio, era dotata di una splendida vista su Biscayne Bay, il che si rivelò un’ottima cosa. Potemmo goderne a lungo, perché Acosta ci fece aspettare quarantacinque minuti; dopo tutto, a che cosa serve avere potere se non lo utilizzi per infastidire la polizia?

Infatti la strategia funzionò, almeno con Deborah. Io mi sedetti e mi misi a sfogliare alcune riviste di pesca, ma lei si agitava, si torceva le mani, stringeva la mascella, incrociava di continuo le gambe e batteva il tempo con il dito sul bracciolo della poltrona. Sembrava una tossica in attesa che aprisse la clinica con il metadone.

Dopo un po’, nemmeno io riuscii più a concentrarmi su quelle ridicole foto patinate di ricchi, tutti con un braccio allacciato a una modella in bikini e l’altro stretto intorno a un grosso pesce, così posai la rivista. — Debs, mio Dio, smettila di agitarti o consumerai la poltrona.

— Quel figlio di puttana mi sta facendo aspettare perché ha in mente qualcosa — sibilò.

— Quel figlio di puttana, oltre a essere ricco e potente, è anche un uomo impegnato — dissi. — E in più sa che stai cercando suo figlio. Il che vuol dire che ci farà aspettare quanto gli pare. Quindi rilassati e goditi il panorama. — Le porsi una rivista. — L’hai già letto questo numero di “Cigar Aficionado”?

Deborah sbatté via il giornale con un colpo secco che nell’elegante e silenziosa sala d’attesa suonò innaturalmente forte. — Gli do altri cinque minuti — ringhiò.

— E poi? — feci. Non ebbe la risposta pronta, almeno a parole, ma mi lanciò uno sguardo che in un istante sarebbe bastato a far cagliare il latte.

Non potei mai scoprire che cos’avrebbe fatto, trascorsi quei cinque minuti, perché dopo che ne passai tre e mezzo a osservare mia sorella digrignare i denti e agitare le gambe come una ragazzina, l’ascensore si aprì e ne uscì una donna elegante. Sarebbe stata alta anche senza i tacchi a spillo e aveva i capelli platinati tagliati corti, forse per mettere in bella mostra il gigantesco diamante che le pendeva al collo, appeso a una spessa catena d’oro. Il gioiello era incastonato in una specie di ankh egizio che terminava in una sorta di piccolo pugnale. La donna ci lanciò uno sguardo altezzoso e si diresse alla reception.

— Muriel — disse con un gelido accento britannico. — Portaci il caffè, per cortesia. — Poi, sempre senza fermarsi, entrò nell’ufficio di Acosta, chiudendo la porta alle sue spalle.

— Quella è Alana Acosta — sussurrai a Debs. — La moglie di Joe.

— Lo so benissimo, dannazione — fece lei, e riprese a digrignare i denti.

Compresi che i miei miseri tentativi di allietare e di distrarre Deborah erano inefficaci, e prelevai un’altra rivista. Era dedicata ad abiti da indossare in barca costosi quasi quanto il Pil di un piccolo Stato. Purtroppo non feci in tempo a capire come mai un paio di pantaloncini da milleduecento dollari fosse meglio di uno da quindici del supermercato che la receptionist ci chiamò.