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Rimasi in attesa; non successe nulla. Non si udirono altri spari. Nessuno aprì il fuoco con un obice. Niente bombe al napalm che sibilavano giù dalla teleferica. Soltanto il tonfo irregolare delle vecchie cabine arrugginite che correvano lungo i cavi. Attesi ancora un po’. Qualcosa mi solleticò il naso; gli diedi una grattata. Quando tolsi la mano, mi accorsi che sanguinava. La fissai raggelato per un lungo istante, incapace di pensare, muovermi o vedere nulla al di fuori di quell’orribile macchia rossa che era il prezioso fluido di Dexter. Poi, per fortuna, tornai a ragionare; mi pulii la mano nei pantaloni e non ci pensai più. Chiaramente doveva essere successo quando mi ero gettato al riparo e avevo sbattuto. Niente di grave. Il sangue ce l’abbiamo tutti. L’importante è non farne uscire troppo.

Strisciai con cautela verso un punto in cui ero sempre al sicuro, ma che mi permetteva di vedere fuori. Spinsi la grossa testa equina un po’ più avanti lungo il pendio in modo che mi coprisse e vi poggiai sopra la pistola. Alla mia destra, nella posizione in cui si trovava Deborah l’ultima volta, una vecchia cabina fracassata si muoveva lungo il cavo elettrico. Non ne era rimasto molto, a parte un pezzo attaccato al cavo e un frammento della tubatura metallica di cui era fatto il seggiolino, che dondolava pericolosamente. Comparve una seconda cabina. Non era altrettanto in pezzi, ma mancavano i pannelli laterali ed era vuota.

Osservai le altre. Soltanto una sembrava in condizione di poter ospitare un passeggero, ma avanzava ondeggiando come se non vi fosse mai salito nessuno. Cominciai a sentirmi un po’ stupido, rannicchiato sotto a un malconcio pony fosforescente a puntare la pistola contro una serie di cabine vuote e distrutte. Ne passò un’altra, altrettanto sfasciata e deserta. Eppure ero certo di aver sentito qualcuno passarmi sopra la testa, e l’avvertimento del Passeggero parlava chiaro. Qualcosa di spaventoso si annidava nel parco, tra gli spensierati ricordi della Terra dei Bucanieri. E sapeva che io ero lì.

Trassi un profondo respiro. C’era anche Bobby, ovviamente, e non sembrava solo. Ma quelle vecchie e sgangherate cabine potevano trasportare non più di due o tre persone. Dunque, se noi tre avessimo continuato a seguire il nostro piano originario, avanzando per il parco, avremmo ancora potuto accerchiare quegli strambi ragazzini. Calma, Dexter, respira, segui il piano e sarai a casa in tempo per il Letterman Show. Tornai indietro strisciando verso il bordo della giostra. Avevo già una gamba fuori, sul terreno, quando udii un altro urlo primitivo. Proveniva dalle mie spalle, in direzione del cancello, allora scivolai all’interno e mi acquattai sotto il mio cavallo decapitato.

Pochi secondi dopo, sentii un vociare allegro e un rumore di passi strascicati, e un branco di una decina di persone mi passò davanti. Erano per la maggior parte dell’età di Bobby Acosta, sullo stile di quei giovani mostri dal viso pallido che popolavano il club Zanne, anzi, forse erano proprio gli stessi, abbigliati in stile piratesco. Sicuramente Roger avrebbe gradito. Camminavano frettolosi, eccitati e felici, con l’aria di chi sta andando a una festa. In testa c’era il buttafuori del club, quello con la coda di cavallo, che sguainava una spada affilata.

Nascosto sotto il mio pony acefalo, li guardai allontanarsi, finché non sentii più il suono dei loro passi. Mi misi a ragionare, e i miei pensieri non furono dei più allegri. La situazione era cambiata. Non mi ritengo socievole di natura, ma mi parve l’occasione giusta per unirmi ai miei compagni e tentare insieme una manovra di sopravvivenza.

Attesi dunque un altro minuto per assicurarmi che non ci fossero ritardatari, poi mi lasciai alle spalle la testa equina e strisciai lentamente fuori dalla giostra. A quanto pareva, il gruppo se n’era andato e ora il parco avrebbe dovuto essere deserto. Davanti a me scorsi un edificio che ricordavo dall’infanzia. Ci avevo vagato dentro per ore, annoiato e perplesso, senza riuscire a capire dove stesse il divertimento. Ma, se mi avesse fornito rifugio, ero disposto a perdonargli anche il nome ingannevole che portava. Così, dopo aver lanciato un’ultima occhiata a una cabina deserta, uscii dalla giostra e corsi verso la Casa dei Divertimenti.

L’esterno dell’edificio era in pessime condizioni e del murale che decorava le pareti restava soltanto qualche debole traccia, infatti si distingueva a malapena l’allegra banda di pirati intenta a saccheggiare un villaggio. Senza dubbio la sua perdita avrà inferto un duro colpo al mondo dell’arte, ma quella non era la sede adatta perché me ne preoccupassi. Sulla facciata dell’edificio brillava una luce fioca, così feci il giro carponi, cercando di restare nell’ombra. In questo modo mi diressi dalla parte opposta rispetto a dove avevo visto Deborah l’ultima volta, ma avevo bisogno di un riparo. Chiunque si trovasse sulla teleferica, mi aveva visto sicuramente mentre mi gettavo dentro la giostra, e dovevo allontanarmene.

Avanzai con prudenza lungo il retro dell’edificio. L’ingresso posteriore era socchiuso e si intravedeva parte di un cartello. Le lettere rosse e scolorite dicevano piuttosto chiaramente SCITA Di siCUR. Mi bloccai a un lato della porta, con la pistola puntata. Non pensavo che a qualcuno fosse venuto in mente di nascondersi in mezzo ai vecchi specchi deformanti. Sarebbe stato troppo banale e immaginavo che persino un cannibale avesse un minimo senso dell’orgoglio. Senza contare che, anche quand’erano in buone condizioni, quegli specchi non avevano mai ingannato nessuno. Dopo anni di incuria, ero certo che non avrebbero riflesso neanche più la punta della mia scarpa. In ogni caso, non avevo scelta; varcai la soglia, tenendomi basso e puntando la pistola all’interno. Non vidi nulla. Avanzai nella pozza d’ombra successiva.

Arrivato all’angolo opposto dell’edificio mi fermai nuovamente e mi guardai in giro: ancora nulla. Possibile che nessuno si stesse occupando di me? Ricordo una frase che diceva sempre Doris, mia madre adottiva: “Il malvagio si nasconde dove nessuno può dargli la caccia”. Nel mio caso era proprio vero. Era da un bel po’ che continuavo a nascondermi, ma a darmi la caccia non ci aveva pensato proprio nessuno. Eppure ero assolutamente certo che i miei avversari erano nel parco, e l’unica mossa sensata sarebbe stata quella di fuggire per salvarmi la pelle. Ma ero altrettanto certo che mia sorella non se ne sarebbe andata senza Samantha Aldovar e Bobby Acosta, e non potevo lasciarla sola.

Il Passeggero borbottò contrariato e un vento gelido, proveniente dalle sue ali, mi attraversò. La voce del buon senso mi parlava tramite i suoi artigli, esortandomi a fuggire di corsa. Ma io non potevo. Non senza Deborah.

Così trassi un forte respiro e mi precipitai rapido verso il rifugio successivo. Una volta doveva essere stata una giostra per bambini molto piccoli, di quelle con le macchinine chiuse che girano lentamente in cerchio. Ne restavano soltanto un paio, entrambe in cattive condizioni. Raggiunsi velocemente quella blu e mi acquattai nell’ombra. Il branco di pirati festaioli era svanito, e non si udivano suoni né rumori, né si scorgeva qualcuno che badasse al mio avanzare solitario. Avrei potuto marciare in mezzo al parco in testa a una banda, esibendomi in acrobazie con armadilli vivi, e nessuno mi avrebbe dato corda.

Ma presto o tardi ci saremmo incontrati e, visto come si mettevano le cose, avrei preferito essere il primo ad accorgermene. Perciò avanzai carponi e sbirciai intorno.

Ero arrivato in fondo alla zona delle giostre per i piccoli e potevo scorgere il lago artificiale che una volta ospitava il galeone pirata. Era ancora pieno d’acqua, anche se non del colore più attraente. Dopo anni di abbandono, era infatti diventata di un verde smorto. Tra me e il fiume si ergevano tre pali della teleferica. Da ognuno pendevano delle lampade, ma soltanto una era in funzione. Era quella alla mia destra, nella direzione in cui prima avevo visto Deborah. Davanti a me si allargava una zona buia lunga una trentina di metri che terminava nel mio successivo riparo, un boschetto di palme su una scogliera a picco sul lago. Non era molto ampio, ma grande abbastanza da celare un’imboscata di talebani. Non c’erano però altri ripari in vista, così scivolai via dalla macchina e mi precipitai allo scoperto, correndo curvo.