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Dal parco si udì un’acuta risata femminile che riportò Chutsky alla situazione presente. Si voltò di scatto, trasse un profondo respiro, un po’ più regolare, poi guardò Deborah. Le baciò la mano, un bacio lungo e a occhi chiusi, infine si alzò. — Portala al pronto soccorso, Dexter — fece. — E dille che l’amo. — Quindi si avviò verso la sua macchina.

— Ehi — dissi. — E tu non vieni al…

Evidentemente non veniva. Mi ignorò, salì in auto e si allontanò.

Non indugiai a osservare i suoi fari sparire nella notte. Sistemai Deborah meglio che mi riuscì assicurandola al sedile con le cinture, e partii. Guidai per circa tre chilometri, per essere certo di non correre rischi, e accostai. Stavo per prendere il mio cellulare, ma ci ripensai e prelevai quello di Chutsky dal sedile su cui Deborah l’aveva gettato. Il suo telefono sarebbe stato di sicuro protetto dalle identificazioni di chiamata. Digitai il numero.

— Nove uno uno — disse l’operatore.

— Convergete al più presto con tutti i ragazzi che avete sulla Terra dei Bucanieri — feci con piglio militaresco.

— Ci può riferire la natura dell’emergenza, signore?

— Sono un reduce — dissi. — Dopo due viaggetti in Iraq, quando sento un fottuto sparo lo riconosco. E quelli nella Terra dei Bucanieri erano spari, sicuro come la morte.

— Ha detto che ha sentito degli spari, signore?

— Cristo, se li ho sentiti. Andate a dare un’occhiata, e vedrete cadaveri ovunque — feci. — Dieci, venti cadaveri e gente che ci balla intorno come a un festino.

— Lei ha detto di aver visto venti cadaveri, signore? Ne è sicuro?

— Poi un tipo ne ha staccato un pezzo e se l’è mangiato, e io ho tagliato la corda. Non ho mai visto niente di così spaventoso nella mia vita, neanche a Baghdad.

— Lei mi sta dicendo che hanno… hanno mangiato un cadavere, signore?

— Sarà meglio che raduni subito tutti gli SWAT disponibili — risposi, poi tolsi la comunicazione e misi in moto la macchina. Forse non sarebbero riusciti a catturare tutti i presenti, ma ne avrebbero comunque presi parecchi, abbastanza da farsi un quadro dell’accaduto e, in un modo o nell’altro, da incastrare Bobby Acosta. Sperai che questo avrebbe aiutato Deborah ad affrontare un po’ meglio quel che era successo a Samantha.

Imboccai la I-95 e mi diressi verso il Jackson Memorial Hospital. C’erano altri ospedali più vicini, ma se sei un poliziotto di Miami, cerchi di farti curare al Jackson, che è dotato di una delle migliori unità traumatologiche del paese. Visto che Chutsky mi aveva rassicurato dicendo che Debs non aveva bisogno di cure urgenti, pensai che fosse meglio farla visitare da gente esperta.

Mi diressi dunque verso sud il più veloce possibile. Per i primi dieci minuti fu tutto tranquillo, poi, poco prima di svoltare nella Dolphin Expressway, udii il suono di una sirena, a cui se ne unirono molte altre, finché non scorsi una colonna di ambulanze dirigersi nella direzione opposta alla mia. La seguiva una colonna identica di furgoni della TV via satellite del notiziario locale, ed entrambi i convogli puntavano a nord, probabilmente verso la Terra dei Bucanieri.

Quando il rumore fu cessato, udii dei movimenti provenire dal sedile posteriore e pochi secondi dopo Deborah parlò. — Cazzo — disse, il che non mi sorprese, vista la fonte. — Oh, cazzo.

— Va tutto bene, Debs — le dissi, sporgendo il collo per vederla dallo specchietto. Era sdraiata, con le mani premute sul ventre e un’espressione stordita e spaventata sul viso. — Stiamo andando al Jackson, ma solo per una visita di controllo. Sta’ tranquilla, stai benissimo.

— E Samantha Aldovar? — chiese.

— Ehm — risposi. — Non ce l’ha fatta. — Lanciai un’altra occhiata nello specchietto.

Deborah chiuse gli occhi e si massaggiò il ventre. — Dov’è Chutsky? — domandò.

— Ah, be’, non saprei — risposi. — Cioè, sta bene, sai, non è ferito. Mi ha detto: “Di’ a Deborah che l’amo”, e poi se n’è andato, ma… — Un enorme camion mi comparve all’improvviso davanti, anche se mi trovavo nella corsia preferenziale, costringendomi a sbandare e a frenare. Quando guardai di nuovo nello specchietto, Deborah aveva ancora gli occhi chiusi.

— Se n’è andato — disse. — Pensa di farmi soffrire, cosi ha fatto il nobile e mi ha lasciato. Proprio adesso che ho più bisogno di lui.

La semplice idea di aver bisogno di Chutsky, lasciamo perdere il più, mi parve un po’ esagerata, ma glissai. — Vedrai che starai bene, sorellina — feci, cercando i termini giusti per rassicurarla. — Ora farai una visita di controllo al Jackson, ma sono certo che ti riprenderai, e domani potrai tornare al lavoro e tutto andrà per il verso giusto e…

— Sono incinta — disse, e stavolta restai davvero senza parole.

EPILOGO

Chutsky se n’era andato sul serio: Deborah aveva ragione. Dopo un po’ di settimane divenne chiaro che non sarebbe tornato, e che non c’era modo di trovarlo. Deborah ci provò, ovviamente, con l’accanimento e la testardaggine tipica delle donne, uniti alle sue doti di abile poliziotta. Ma Chutsky aveva alle spalle una carriera di agente segreto e si muoveva su un altro livello. Non sapevamo neppure se quello fosse il suo vero nome; dopo una vita passata nello spionaggio, forse non se lo ricordava neanche lui. Così scomparve completamente, come se non fosse mai esistito.

Anche sull’altro argomento Deborah aveva ragione. Presto tutti si accorsero che i pantaloni le andavano troppo stretti e che le sue camicie in genere piuttosto sobrie si erano trasformate in ampi camicioni hawaiani che prima non avrebbe mai indossato, nemmeno da ubriaca. Deborah era incinta e determinata ad avere il bambino, con o senza Chutsky.

In principio mi preoccupai che il suo status di ragazza madre potesse compromettere la sua posizione lavorativa; di solito i poliziotti sono piuttosto tradizionalisti. Invece, a quanto pareva, non avevo fatto i conti con il Nuovo Conservatorismo. Al giorno d’oggi, i valori sociali prescrivono che essere incinta da single è una cosa positiva, finché continui a esserlo, e sul lavoro il prestigio di Deborah cresceva col crescere della sua pancia.

Forse penserete che una detective incinta avrebbe potuto convincere più facilmente una giuria della cattiveria di un individuo, ma durante l’udienza per Bobby Acosta gli avvocati puntarono sul fatto che Joe aveva appena perso la moglie, cioè la madre adottiva di Bobby, la quale aveva allevato il ragazzo ed era una figura importante per lui, venuta a mancargli tragicamente. Ovviamente trascurarono il fatto che la donna era morta nell’atto di torturare e ammazzare un bel po’ di gente, provandoci persino con la mia splendida e preziosa persona. Il giudice stabilì una cauzione di cinquecentomila dollari, che per la famiglia Acosta erano noccioline, e Bobby corse allegramente fuori dal tribunale, tra le braccia del suo affettuoso paparino, come si era immaginato.

Deborah la prese meglio di quanto pensassi. Pronunciò un paio di parolacce, ma in fondo era Deborah, e tutto quel che disse fu: — Be’, cazzo, così quel coglione è di nuovo in circolazione. — Poi mi guardò.

— Be’, sì — risposi, e all’incirca andò proprio così.

Bobby era in libertà fino alla data del suo processo, che si sarebbe svolto anni più tardi, considerando il calibro degli avvocati che il padre si poteva permettere. Quando Bobby si fosse trovato davvero al cospetto di una giuria, tutti quei simpatici titoli di giornale come “Cannibali al luna park” e “Strage alla Terra dei Bucanieri” sarebbero stati dimenticati e, con il denaro di Joe, l’accusa si sarebbe trasformata in “caccia fuori stagione”, commutando la pena in una ventina d’ore di servizio civile obbligatorio. Una pillola amara da buttar giù, certo, ma è così che va la fottuta giustizia a Miami, e noi lo sapevamo.