La prima stagione viene trasmessa in America nel 2006 incontrando un clamoroso favore di pubblico e critica. Nell’incetta di premi ottenuti (miglior nuova serie, miglior attore, miglior cattivo, miglior personaggio eccetera) spicca un Emmy Award per la sequenza della sigla, piccolo gioiello di creatività di Michael Cuesta, regista principale della serie, anch’egli reduce dai successi di Six Feet Under.
La trama sviluppata nelle dodici puntate del telefilm ricalca, sostanzialmente, quella del primo romanzo Darkly Dreaming Dexter, con qualche lieve variante nei nomi e nelle caratterizzazioni dei personaggi di contorno. Dexter Morgan vive la sua personalità di lavoratore, fidanzato e fratello ideale in alternanza a quella doppia che sente più vicina alla sua natura interiore e che consiste nell’uccidere e fare a pezzi i serial killer, scaricandone i resti in mare dalla sua bella barca a motore il cui ironico nome risulta essere Slice of Life (Pezzo di Vita). La pur assurda tranquillità della sua esistenza viene sconvolta dall’irrompere in città di un nuovo serial killer che si accanisce su vittime di sesso femminile, sezionandone i corpi e lasciandoli esposti, ai rilievi della polizia scientifica, in pose “artistiche”. Questo assassino denominato “killer del camion frigo” (nel romanzo è Tamiami butcher) inizia a inviare dei messaggi a Dexter, dimostrando di essere al corrente del suo segreto. Dopo aver viaggiato, fino a un certo punto, su binari più o meno paralleli, le vicende di romanzo e serie TV divergono nettamente nel finale, andando a segnare pesantemente i futuri sviluppi della storia che si dipanerà, con eguale successo, in due direzioni alternative. Una sorta di effetto “sliding doors” applicato alla vita del personaggio, che continuerà a esistere come entità sia televisiva che letteraria seguendo strade simili e allo stesso tempo fortemente diverse.
Dando per scontate le evidenti variazioni nello stile narrativo, necessarie alla trasposizione di un soggetto letterario nel formato televisivo (tutto il romanzo è narrato in prima persona da Dexter, e viene lasciato molto spazio alle sue digressioni di carattere psicologico togliendone, fatalmente, ai personaggi di contorno), la scelta fatta dalla produzione del serial parve voler puntare su una “umanizzazione” del protagonista. Ogni immagine, ogni scelta narrativa, sembra studiata per renderlo simpatico, amabile, apprezzato dal pubblico nonostante la sua natura evidentemente psicopatica e deviata. Nella serie TV, Dexter prenderà alcune decisioni mirate a proteggere sua sorella Deborah e a custodire il suo segreto, mostrando (a discapito di quanto continuamente dichiarato nel corso di tutta la serie, nelle riflessioni fuori campo in prima persona che fungono da intermezzi all’azione) di non essere assolutamente indifferente alle persone, ai sentimenti e all’amicizia. Lo vediamo, ad esempio, fare sesso con la sua fidanzata Rita, dopo aver più volte affermato di non essere per nulla attratto da quell’aspetto del rapporto fra uomo e donna. Il meccanismo che scatta nello spettatore, in questi casi, non è di disappunto per l’evidente controsenso tra le riflessioni di Dexter e le sue azioni, quanto piuttosto di sollievo per la progressiva presunta “normalizzazione” di un personaggio che ispira un’irresistibile quanto positivamente malsana simpatia.
Al di là delle sostanziali differenze nel finale, sia nel romanzo che nel telefilm viene rivelata una traumatizzante esperienza vissuta da Dexter bambino, all’origine del suo attuale, grave disturbo della personalità. L’esperienza era stata completamente rimossa dalla memoria del nostro “eroe”, fino al momento in cui il “killer del camion frigo” la farà riemergere per perseguire i suoi diabolici scopi.
Il plot della seconda stagione (andata in onda in America nel 2007) differisce quasi totalmente da quello del secondo romanzo, Dearly Devoted Dexter (Dexter il devoto, Il Giallo Mondadori, n. 2985), mantenendo l’unico elemento di similitudine nella persecuzione di Dexter da parte del sergente James Doakes (l’attore Erik King già apprezzato nel ruolo di condannato a morte in un paio di stagioni dell’allucinante serie carceraria Oz).
La stagione due introduce molti personaggi assolutamente estranei alla saga letteraria (come l’agente dell’FBI Frank Lundy, interpretato da Keith Carradine, e la nuova fiamma di Dexter, Lila, impersonata da Jamie Murray) conservando un ottimo livello di audience e culminando in un finale rocambolesco che, come ricordato prima, ha dato origine a svariate critiche, sia in USA che da noi in Italia.
È su queste che voglio soffermarmi brevemente, in particolare su quella avanzata dalle colonne del quotidiano “La Stampa”. L’ottimo scrittore e giornalista Andrea Scanzi demolisce pesantemente la seconda serie di Dexter accusandola di propagandare un “discutibile messaggio morale” dovuto a un “crollo etico” del personaggio. Scanzi, inoltre, si accanisce sullo “scarso livello intellettuale” di personaggi come Deborah (sorella di Dexter) o Rita (fidanzata dello stesso).
Senza voler contraddire le affermazioni del quotato critico e opinionista, mi permetto (a carattere di riflessione personale) di ribaltare l’ottica della sua analisi.
Ciò che viene maggiormente stigmatizzato, nella critica alla seconda stagione, è la morte di un personaggio sostanzialmente positivo come il sergente Doakes, già presente nella prima serie, che qui metteva in grave pericolo il segreto di Dexter (e quindi la sua permanenza in vita o, quantomeno, in libertà) con le sue insistenti indagini.
Doakes viene fatto morire non per mano del “serial killer dei serial killer”, ma per quella di un altro personaggio, sostanzialmente negativo. Un espediente narrativo giudicato un po’ forzato, ma che risulta essere senz’altro funzionale al riequilibrio di una vicenda sincopata e ingarbugliata che riesce, allo stesso tempo, a rimanere tesissima e avvincente. Assistiamo, addirittura, al ritrovamento casuale, da parte di sommozzatori a caccia di tesori sottomarini, dei resti subacquei di tutte le vittime del nostro simpatico “assassino della porta accanto”. Alla macabra scoperta farà seguito l’apertura di un’inchiesta finalizzata alla cattura del pericoloso omicida ribattezzato “macellaio di Bay Harbor”. Sarà proprio Dexter, nella sua qualità di stimato tecnico della Scientifica, a essere chiamato ad analizzare i resti umani delle sue stesse vittime dall’agente dell’FBI Frank Lundy, che lo riterrà punta di diamante della task force organizzata per risolvere il caso. Ed è sempre lo stesso Dexter, nel criticatissimo finale, a fare giustizia (tra l’altro con modalità estranee al suo consueto modus operandi) di colei che lo ha salvato dai sospetti del sergente Doakes riportando l’equilibrio in una storia dove, alla fine, il poliziotto che funge da malcapitata vittima sacrificale si ritroverà sulle spalle anche l’accusa postuma di essere il famigerato “macellaio di Bay Harbor”.
In tutto questo, non mi è chiaro come si possano definire “crollo etico” le azioni riprovevoli di un personaggio che, comunque, anche nella prima serie, abbiamo visto uccidere e fare a pezzi ben undici persone. Parimenti, mi viene da pensare che non si possa pretendere di traghettare “messaggi morali” con un telefilm di questo genere. Si tratta semplicemente di uno show televisivo divertente e avvincente, pervaso da quella vena ironica e surreale che costituisce sicuramente uno degli aspetti fondamentali del suo successo. Tutti gli elementi “visivi” presenti nella serie, dall’aspetto fisico di Dexter e degli altri personaggi, al loro look minimalista e curato, al cibo di cui sono soliti cibarsi, alle loro case, le loro automobili, ai colori stessi e alle angolazioni con cui viene ritratta la città di Miami, sembrano dar vita a una sorta di realtà virtuale, un cartone animato tridimensionale, piuttosto che all’ambientazione realistica di una serie drammatica. Questa scelta, certamente non casuale, degli sceneggiatori fa sì che tutto appaia fittizio, costruito, falso. Ma ugualmente godibile, grazie a un vero e proprio patto di “sospensione dell’incredulità” con i consapevoli spettatori. È proprio grazie a questo tacito accordo che non ci si sente troppo in colpa nell’accettare di veder giustiziare e fare a pezzi un uomo, senza perdere la simpatia nei confronti del suo assassino. Arrivando, anzi, quasi a desiderare di averlo come vicino di casa.