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— Non possono non esserlo, caro… li ho pagati a peso d’oro. Mi fa un piacere immenso che ti siano piaciuti.

Decise di dirlo, una volta per tutte. — Tu sei anche Marcella.

— Intendi dire oltre a tutte quelle orribili puttane che recito? Sì, esiste anche una Marcella… una Marcella reale, anche se a volte ho molte difficoltà a entrare in contatto con lei. Del resto è così divertente fare la puttana, anche se dopo una non si piace molto. Ma caro, voglio che tu sappia che è terribilmente pericoloso che io ti parli, sapendo che sei in quell’orrendo posto, perché ho la tentazione di fare la puttanella con te. Perché non fai il bravo? Ma io verrò a trovarti appena mi sarà possibile. Magari potremmo trovare insieme una porta per farti uscire di lì.

Nessun saluto, solo l’orribile gesto definitivo della cornetta abbassata sul ricevitore. Riappese anche lui e intrecciò le mani dietro la nuca, come faceva sempre quando doveva pensare. Forse Lara avrebbe richiamato come Marcella o come un’altra ancora. Come Tina? Tina, la bambola, era stata modellata a somiglianza di qualcuno… di una donna reale che si faceva chiamare Tina ma in realtà era Lara. Ma in fondo chi era veramente la donna che lui conosceva — che aveva conosciuto — come Lara?

Uscì dal furgone e scivolò sul ghiaccio. Si svegliò di soprassalto.

Allora stava dormendo; dormendo e sognando. Forse anche la telefonata di Lara era stata un sogno. Si alzò, trovò l’attrezzo appuntito che aveva preso nella stanza di North e aprì l’armadietto. I suoi vestiti erano proprio come li ricordava. L’amuleto che Sheng gli aveva dato era appeso a un chiodo; Tina, la bambola, era nella tasca anteriore del soprabito.

La mappa mal ripiegata era in una delle altre tasche. La tirò fuori, ma era troppo buio per riuscire a leggerla.

Nel riporla incontrò qualche difficoltà. La tirò di nuovo fuori e infilò la mano nella tasca. C’era una scatoletta… come per magia, come per una stregoneria da quattro soldi. Un leggero tintinnio. Il suo dito curioso scoprì un cassettino e lo aprì. Seguì un secondo tintinnio, più rumoroso, quando tanti piccoli oggetti caddero sul pavimento. Fiammiferi, naturalmente.

Si accovacciò a terra, ne trovò uno e lo sfregò sulla scatola producendo una grande fiammata di luce solforosa. Un grosso drago si contorse con stupefacente elasticità intorno a un foglio di carta, fluttuando verso l’alto, come per baciare o forse divorare un carattere cinese di ammirevole complessità.

Nel timore che un’infermiera passando lì accanto potesse vedere la luce, spense il fiammifero.

Erano i fiammiferi di Sheng, ora se ne ricordava. Quando lui e Sheng erano andati nello scantinato del negozio, il cinese gli aveva dato quella scatola di fiammiferi dicendogli di accenderne uno. Al suo rifiuto Sheng aveva acceso il fiammifero di un’altra scatola. Lui doveva aver riposto questa in tasca.

Raccolse quanti più fiammiferi poté e li ripose nella scatola. Infilò la testa e le spalle nell’armadietto così da mascherare la luce, accese un altro fiammifero e osservò la bambola.

Era Lara, senza ombra di dubbio. Forse i capelli erano leggermente meno rossi, sebbene alla luce del fiammifero fosse difficile essere sicuri; le ragazze, le donne, spesso cambiano colore dei capelli. E gli zigomi forse erano appena meno pronunciati, ma era Lara. La fiamma gli raggiunse le dita e lui soffiò sul fiammifero per spegnerlo.

Dopo aver riposto la bambola e la scatola di fiammiferi, richiuse lo sportello dell’armadietto, conficcò i fiammiferi bruciati sotto il bordo inferiore per tenerlo chiuso. Doveva riportare l’attrezzo a North? Era in dubbio. Sicuramente North si sarebbe accorto che gli mancava, ma lui non sapeva quale fosse il nascondiglio segreto, perciò North avrebbe sicuramente notato che era fuori posto.

Inoltre ora lui non poteva andare con North.

Inclinò il vaso e infilò sotto l’attrezzo, poi tornò a letto e si coprì con il lenzuolo e la sottile coperta. Come se l’aver inclinato il vaso lo avesse liberato, il profumo delle rose riempì la stanza.

Scoprì che poteva distinguere un profumo dall’altro, senza però sapere a quale bocciolo appartenesse.

Uno sembrava di ambra scura, languido, soffocante e carico di spezie. Un altro, leggero, evocava pere e mele mature, e faceva pensare a fiori rosa. Tra questi due, a volte indefinibile, a volte selvatico, danzava un terzo profumo, insinuante e senza colore ma audace, seducente, incantevole. Per una di quelle intuizioni che vengono quando si è nel dormiveglia, capì che il terzo era Lara, il primo Marcella, il secondo Tina.

Come se l’aver indovinato il segreto avesse concluso il gioco, arrivò Lara e lo prese per mano. Il fiammifero cadde a terra e lo sportello dell’armadietto si aprì. Al di là si apriva un giardino colmo di fiori e inondato dal sole. Al centro, in una piccola radura, si ergeva un arco di pietra ornato da un profluvio di rose selvatiche: gialle, rosa e bianche, e di altri cento colori, tonalità e venature. Per qualche ragione la vista dell’arco lo raggelò di un terrore simile alla paura provocata dalla vista di un bisturi in un uomo che stia per essere operato.

Nel vederlo impaurito, Lara gli lasciò la mano ed entrò nel giardino da sola. Terrorizzato e affascinato insieme, lui rimase a guardarla attraversare il piccolo prato, oltrepassare l’arco e scomparire.

Anche se Lara se n’era andata, lui non riusciva né a entrare nel giardino né a chiudere lo sportello dell’armadietto. Una brezza giocosa solleticava il giardino, arruffando le vivaci aiuole di tulipani e facendo oscillare i lillà flessuosi. Uccelli rossi e gialli svolazzavano nell’aria cinguettando e appollaiandosi di tanto in tanto sui gambi delle rose che avviluppavano quell’arco inquietante.

Rimase a lungo immobile in attesa. Sentiva ormai le gambe e le braccia rigide e fredde, quando sotto l’arco apparve Tina; le sue forme — delicate come quelle di un bambino, come quelle di Lara — contrastavano con il seno eretto. Gli venne incontro sorridendo con la mano tesa attraverso il prato. Quando lui la toccò, divenne Marcella, bionda ed elegante, risplendente di diamanti e avvolta in una pelliccia di visone. Era così sbalordito da quella trasformazione che ritrasse la testa dall’armadietto e chiuse lo sportello.

Rimase seduto sul letto, ma lo sportello continuava a sbattere incessantemente, come se diecimila scolari stessero passando al vaglio i loro libri, eliminandone alcuni e scegliendone di nuovi, senza sosta. Una luce intensa lampeggiava attraverso la finestra oscurata dalle tende.

Tremante nel suo pigiama, rimase lì a osservare il temporale invernale. Neve e grandine riempivano l’aria, svanivano per ricomparire trionfanti. I tuoni scuotevano i rami ghiacciati degli alberi, e i lampi giocavano tra le torri della città; grazie a quell’illuminazione febbrile vide forme mai viste nella sua città né in qualunque altra di sua conoscenza: pagode, piramidi, obelischi, ziggurat.

— Torna subito a letto! — lo sgridò W.F.

— Stavo solo ammirando il temporale.

— So io cosa stavi facendo. Torna a letto all’istante e poi dimmi tutto quello che vuoi. Altrimenti — quella di W.F. sembrava una minaccia — non ti darò l’ananas con i fiocchi di granturco domani mattina a colazione. Ormai è quasi mattina. — W.F. entrò nella stanza a grandi passi. — Torna subito a letto!

Ubbidiente e perfino grato, lui si rimise a letto, e si avvolse nel calduccio della coperta.

W.F. gliela rimboccò, si chinò sulle rose, odorandone una, poi un’altra. — Sei fortunato ad avere queste rose, lo sai? A Joe piacciono tanto i fiori che ha finito col farli piacere anche a me. Quando sta a casa con quella Jennifer, praticamente non fa altro che stare intorno ai suoi fiori. Ha una piccola serra…

Se avesse potuto sarebbe tornato all’armadietto e al suo giardino stregato. Invece si ritrovò al lavoro, asopportare una signora dall’aria inferocita che gli diceva: — Vorrei comprare dei mobili. Mi mostri qualche mobile, giovanotto.