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Ma qui c’era la California? C’era sicuramente dove si trovava Marcella quando aveva chiamato, dove si trovava Emma che aveva preparato il bagno di Lara. Emma gli stava di fianco e, anche se non poteva vederla, lui sapeva che era un soldato nazista, un S.S. travestito. Avrebbe voluto dire: “Allora, colonnello Hogan”, ma le parole non gli uscivano di bocca. Il cassetto era aperto e dentro c’era la lettera chiusa, la lettera sigillata con la ceralacca rossa. Aveva paura della donna, dell’uomo alle sue spalle.

“Ecco, sto facendo ancora quel sogno”, pensò. “E forse, quando mi sveglierò, starò dormendo accanto a Lara”.

Sulla scrivania c’era un solo libro, fissato al ripiano con un chiodo, così nessuno avrebbe potuto rubarlo. Il titolo era stampato sulla copertina di marocchino nero in caratteri gotici oro antico: Das Schloss.

13. Il Grand Hotel

Si svegliò nel momento in cui il taxi si fermava, molto probabilmente perché l’autista aveva fatto in modo che la frenata lo svegliasse. — Fa ventisette e dieci — gli disse.

Lui gli allungò trenta dollari e scese dall’auto.

Invece di portarlo fino alla rampa d’ingresso, il tassista lo aveva lasciato nella strada sottostante. Sopra al lastricato la neve continuava a danzare una danza di fantasmi, di bianche forme roteanti che volteggiavano nel silenzio più assoluto. In lontananza un campanile batté un colpo, e il suono cupo della campana rintoccò spettrale per miglia e miglia sui campi ricoperti di neve. Un vento gelido lo sfiorò penetrandogli attraverso i vestiti.

Sentì il rumore della risacca e si lasciò alle spalle le finestre illuminate e accoglienti dell’albergo, attratto da un impulso che non riusciva a comprendere e a cui non sapeva resistere. La sabbia era cosparsa di blocchi di ghiaccio che si erano ammucchiati a formare un ammasso più alto di lui.

Si inerpicò lentamente, facendo molta attenzione, afferrandosi saldamente alle lastre con le dita irrigidite dal freddo, scivolando e cadendo spesso finché finalmente non raggiunse la cima e lì si fermò a guardare l’oscurità piena di sussurri. Allora gli sembrò di essere anch’egli una creatura del mare, una foca, un delfino, un leone marino diventato uomo per qualche magia crudele, una magia come quella che aveva dato le gambe alla sirena in un racconto che un tempo l’aveva fatto piangere al pensiero di quella sirenetta che danzava, danzava col suo principe nel grande castello di Elsinore, danzava il minuetto mentre le unghie incandescenti della terra trafiggevano i suoi poveri piedi.

E a un tratto pensò al tempo in cui la televisione non lo assorbiva completamente, quando riceveva per bocca di sua madre tutti i consigli di cui avrebbe avuto bisogno per navigare in quello strano paese dove si trovava ora. Ma non aveva dato molta importanza a quelle parole, o almeno non abbastanza, perciò ora non sapeva riconoscere come una volta tutti gli orchi e i folletti, i giganti dinoccolati e gli gnomi danzanti. North era un mostro, questo era certo; e se North fosse stato invece una salamandra, il signore delle fiamme? E se ora North lo stava aspettando all’hotel, se stava danzando impaziente proprio quel minuetto, aspettando furioso d’esplodere?

Sua madre non gli aveva forse insegnato un incantesimo contro le salamandre?

Sua madre non era morta, come una volta stupidamente aveva creduto. In qualche remota parte di sé l’aveva sempre saputo. Aveva occultato questa sua convinzione per paura di apparire strano agli occhi dei suoi datori di lavoro, delle impiegate all’Ufficio Personale, degli ispettori e dei vicedirettori che non poteva più chiamare ficcanaso (almeno non lui, né qualunque altro impiegato a ore); ficcanaso, quel che lui aveva per tanto tempo sognato di diventare, anche se non aveva frequentato il college, anche se non era considerato — e non lo era mai stato — un soggetto che poteva aspirare a far carriera.

Quella cosa di cera che avevano sepolto, non era sua madre. Si chiese dove fosse e perché non gli avesse mai telefonato o scritto, perché non avesse cercato di avvertirlo in qualche modo; ma forse l’aveva fatto, forse era proprio sua la lettera che giaceva nel cassetto foderato di verde che aveva sognato.

Tra le nuvole si aprì uno spiraglio e la luna sfiorò l’oceano. Nel vedere quel frammento d’oceano tremolare alla luce argentata della luna ne fu certo, e fu certo anche di aver navigato per decenni, in una precedente vita; e sentì che quella precedente vita stava ora ritornando. Rimase in equilibrio sul ghiaccio, ma quella consapevolezza era scomparsa. Del chiaro di luna riflesso sulle onde non restava che la luna affacciata sulle onde, e ora che si era abituato al morso salato del vento non provava più gioia per l’aria pungente, ma ne avvertiva solo il senso di freddo. Dopo un po’ di tempo distolse lo sguardo dall’oceano e cominciò a scendere lentamente, scivolando spesso e afferrando le lastre di ghiaccio scheggiate con le mani irrigidite dal freddo, attraversò l’asfalto nero e la grande terrazza con i suoi fantasmi danzanti, salì la gradinata ed entrò nel Grand Hotel.

L’entrata dell’albergo aveva una doppia vetrata con due porte. Fra la prima e la seconda vetrata stazionava solitario un fattorino, come la sentinella di un castello senza guarnigione, l’ultima sentinella lasciata da Cesare per sorvegliare le mura romane o il Reno. Il fattorino guardò il suo soprabito bruciacchiato e bucherellato e il suo viso ustionato e disse: — Posso fare qualcosa per lei, signore?

— Sì — rispose. — Sì che puoi. Almeno spero. — Voleva dire al fattorino il numero della stanza, ma non se lo ricordava, perciò disse: — C’è stato un incendio. In un teatro e nel negozio di un cinese.

Il fattorino annuì comprensivo. — Quale teatro, signore? — Aveva i capelli biondi e ricci come trucioli e portava il cappello a tamburello messo di traverso sopra un orecchio.

— Non lo so — ammise. — Davano uno strano spettacolo sulla rivoluzione.

— Ah, allora dev’essere l’Adrian, signore. Bel posto.

— Non più — disse lui. — È stato completamente distrutto dal fuoco.

— Saranno stati di certo quelli del Governo, signore. Lei sa bene come sono.

Lui annuì (anche se non lo sapeva) e gli chiese: — Non c’è nessuno al banco della reception?

— A quest’ora no, signore. Di notte me ne occupo io.

Verrò con lei in ascensore, signore. — Il fattorino scrollò le spalle. — Vede signore, per noi è bassa stagione. Sa com’è, se le stanze dell’albergo avessero i caminetti… — il fattorino si strinse di nuovo nelle spalle, un movimento impercettibile sotto la giacchetta rossa attillata.

— È stato il mio amico a fissare la stanza. Vorrei sapere fino a quando è stata pagata.

— Se vuole, signore, posso controllare.

Lui annuì, tirò fuori dalla tasca la chiave della sua stanza e l’allungò al fattorino che intanto aveva aperto la porta a vetri interna e gli faceva strada nell’atrio.

Al banco, il fattorino aprì un enorme libro e cominciò a sfogliarlo. — Ecco qui, signore. A cominciare da ieri, o meglio, vista l’ora, dall’altro ieri. Per una settimana, signore. Quindi le restano ancora sei giorni, contando stanotte.

Nell’ascensore chiese al fattorino dove poteva comprarsi un cappotto nuovo. Gli pareva proprio che North avesse comprato le camicie, le cravatte e i cappelli senza allontanarsi dall’albergo; forse North sapeva davvero guidare, eppure aveva chiesto a lui di farlo, gli aveva sempre ordinato di guidare.