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Lui disse: — Mi scusi, stava dicendo?

— Dicevo che qui c’è un negozio, signore. Anzi, adesso stanno facendo dei grandi sconti, per via della bassa stagione. Al piano inferiore, signore. Troverà anche un barbiere, una sala da biliardo e un mucchio di altre cose.

— Mi scusi — disse lui. — Mi dispiace ma devo essermi perso nei miei pensieri.

— È naturale, è un po’ scosso, signore. Deve averla scampata bella.

— Non so — disse lui chiedendosi se in realtà non fosse morto davvero. Si ricordava di aver sentito parlare del purgatorio quand’era bambino; anche allora non ci aveva creduto, ma forse aveva sbagliato a non crederci, così come aveva sbagliato tante altre cose da allora, sbagliato un’intera serie di scelte che non aveva mai avuto fine… finché un giorno Lara non lo aveva scelto. C’era il fuoco nel purgatorio? No, il fuoco era all’inferno.

Gli parve che l’ascensore salisse troppo velocemente, a strattoni e scossoni. Non se ne era accorto subito, ma solo quando aveva rallentato permettendogli così di vedere ogni piano e ogni corridoio, nervi e vene dell’albergo messi a nudo da quella gabbia di ferro battuto che gli mostrava ninfee e piramidi a un piano, cavalli dorati e covoni di fieno a un altro.

E a ogni piano, vene prosciugate e nervi immobili. Era questo che vedeva un bisturi mentre incideva la carne… questi pezzi sezionati privi di vita.

Da piccolo aveva subito numerosi interventi e da allora mai più. In quel momento si rendeva conto che la sua idea di sala operatoria era ancora quella di un bambino… ti addormenti di giorno e ti svegli con la nausea. Questa era stata la realtà: l’ascensore del chirurgo che girava dentro il suo corpo per vedere com’era fatto. Il ferro battuto lo guardò con l’espressione feroce di una belva della giungla, con gli occhi roteanti di un toro dalle ali di avvoltoio e la testa barbuta di uomo.

— Ultimo piano, signore. — Il fattorino tirò fuori la chiave. — L’accompagno fino alla sua stanza, signore.

— Ho un aspetto tanto orribile?

— Mi sentirò più tranquillo se l’accompagno, signore. — Il fattorino si affrettò davanti a lui lungo il corridoio. — Eccoci arrivati, signore. Suite imperiale. — La porta si aprì con uno scatto. — Lei e il suo amico siete i soli ospiti del piano, ma se avete qualche problema o altro, chiamate la reception. Sentirò lo squillo del telefono.

Lui annuì.

La stanza, che prima era fredda, era addirittura gelida. Mentre tirava fuori il portafoglio cercò di ricordarsi se aveva bevuto qualcosa insieme al tassista; era certo di sì, altrimenti non si sarebbe addormentato lungo il tragitto. La banconota di taglio più piccolo che aveva era da dieci dollari, ma pensò che il ragazzo li meritava dopo tutto il tempo che avevano passato insieme, a consultare il grande libro, a contemplare il mare e a fare l’autopsia del suo luogo di lavoro.

— Grazie, signore. — Il fattorino tossì. — Signore, abbiamo dei piccoli bracieri…

— Sì — disse lui. — Ne vorrei uno, se è possibile.

— L’ambiente deve essere areato, ma non si preoccupi, saranno sufficienti gli spifferi di quelle portefinestre. — Il fattorino gli fece un mezzo sorriso. — Gliene porto subito uno.

— Grazie — disse.

Quando il fattorino ritornò, lui si stava già svestendo. Il braciere era molto piccolo, ma era meglio che niente. Lo mise in camera da letto, e quando spense la luce si accorse che il rame emanava un tenue bagliore, una sensazione di calore e conforto.

Quando al mattino si svegliò, Lara non c’era, e tutti i muscoli erano indolenziti. Il dorso della mano destra era bruciato come la manica del soprabito, e la scottatura era secca e gli doleva. Nel bagno c’erano ancora l’acqua di colonia e la schiuma da barba che North aveva comprato, ma nessuna delle due sembrava adatta per essere spalmata su una scottatura.

Servizio Medico, era stampato sul cartoncino di plastica bianca che spuntava da sotto il telefono. Compose il numero, e gli risposero che il dottore non c’era, che di solito arrivava più tardi e che a volte, durante la bassa stagione, non veniva nemmeno, ma che non appena fosse arrivato l’avrebbe immediatamente chiamato (oppure no). Lui non si ricordava il numero della stanza, ma disse: — Sono nella suite imperiale, all’ultimo piano — e il telefonista disincarnato sembrò aver capito.

Soltanto dopo aver riappeso il ricevitore si rese conto di essere riuscito a telefonare senza difficoltà, senza l’intromissione di voci pigolanti o di Klamm, e che qualcuno — forse la persona giusta — gli aveva realmente risposto.

Decise di chiamare di nuovo il suo appartamento, ma cercò immediatamente qualcos’altro da fare, qualcosa che allontanasse nel tempo il momento in cui avrebbe veramente composto il numero. Si accorse che il braciere era ormai spento, restava solo qualche scintilla rosso vivo fra la vaporosa cenere grigia. Aggiunse un po’ di carbonella dal contenitore di rame vicino al braciere, andò in bagno a sciacquarsi le mani, stando attento a non bagnare la scottatura.

Il soprabito era irrimediabilmente rovinato. I pantaloni migliori dovevano essere sostituiti, ma potevano ancora andare abbastanza bene in attesa di comprarne di nuovi. Si vestì lentamente, facendo attenzione alla scottatura e cercando di pensare più alla colazione che alla telefonata e al suo appartamento, convinto che sarebbe stato più saggio non pensare a niente finché non fosse l’ora di telefonare, telefonare per parlare con qualcuno che non sarebbe stata Lara, o con nessuno.

Squillò il telefono.

Rispose. Era il dottore, come avrebbe dovuto immaginare. — Mi pare di capire che si è scottato una mano.

— Sì — disse lui. — Non credo che sia grave, ma sopra si è formata una specie di crosta. — Decise di non parlargli delle scottature che aveva scoperto di avere sul viso quando si era rasato. Il medico le avrebbe viste da solo e avrebbe deciso se era il caso di curarle, oppure no.

— Ho avuto anch’io un piccolo incidente. Venga di sotto, per favore. — La voce del dottore gli suonava vagamente familiare. — Le applicherò una pomata e le metterò delle bende per proteggere la pelle finché non si cicatrizza. Mi troverà nel seminterrato… qui lo chiamano il piano inferiore.

L’ascensore impiegò molto tempo per arrivare. Suonò tre volte prima di ricordarsi che c’era un operatore per farlo funzionare e che si sarebbe senz’altro infastidito. Quel giorno l’operatore era un adolescente imbronciato pieno di foruncoli.

— Piano inferiore — disse.

I piani che si intravedevano scendendo e che la notte prima gli erano sembrati abbandonati ora gli apparivano desolati. Pensò di essere lui stesso un fantasma, su un ascensore fantasma in un albergo fantasma; pensò che quell’edificio era stato demolito tanto tempo prima, e sostituito da condomini affacciati sul mare, orribili strutture bianche e silenziose, a loro volta minacciate dalla distruzione. Condomini avvolti in sudari bianchi di sale, destinati a essere demoliti se solo si fosse trovato qualcuno che comprasse il terreno pagandolo sull’unghia e in anticipo perché fossero abbattuti.

Apparve l’atrio, ancora deserto, se si eccettuava un giovane magrolino e occhialuto seduto dietro al banco della reception. Atterrarono come elicotteri, nell’antro senza finestre delle boutique, tutte buie e serrate, tutte (a giudicare dall’apparenza) pronte a giurare che non erano aperte, e non lo erano mai state.

— Da che parte è l’ambulatorio medico? — domandò.

Il ragazzo glielo indicò.

— E può dirmi fino a che ora servono la colazione al bar?

— Fino all’ora di chiusura — rispose il ragazzo, e sbatté la porta in ferro battuto.

Passò davanti alla fila di negozi e voltò dietro un angolo. L’antro cavernoso era ancora più ampio, ravvivato da una fila di balconate. Dal soffitto pendevano bandiere impolverate come tante stalattiti; ne riconobbe solo due o tre. Di chi era l’aquila a due teste? E il grifone che artigliava l’aria?