— Da questa parte, signore!
Un grassone in maniche di camicia che si sosteneva a una stampella, si sporse da una sottile balconata per fargli cenno con la mano. Lui rispose con un altro cenno e salì una breve rampa di gradini metallici che cigolavano e rimbombavano sotto i suoi piedi, domandandosi se per caso non ci fosse un ascensore e se il dottore (che non sembrava in grado di salire scale) fosse stato costretto a passare di lì.
La porta del dottore era l’unica con la luce accesa, una porta vecchio stile coi vetri zigrinati e la cornice di quercia. Sul vetro, a chiare lettere, c’era scritto C.L. APPLEWOOD. Medico Chirurgo.
All’interno non c’erano segretarie, né infermiere. Il dottore stava seduto dietro alla scrivania in fondo alla stanza lunga e stretta. Aveva i tratti del viso marcati: la mascella pronunciata, il viso sbarbato, quel tipo di fronte alta alla Shakespeare che i capelli bianchi e la calvizie incipiente regalano a tutti gli uomini, il doppio mento che richiedeva una grande abilità nella rasatura. Su tutto, un velo di fine cipria bianca tipico degli attori.
— Bene! Bene! — Le parole risuonarono forzate. — Sono contento che ce l’abbia fatta, signore! Grandioso! Anche noi ce l’abbiamo fatta, salvo il povero Daniel. È morto! Proprio così, morto stecchito, e non ho potuto fare niente per salvarlo, signore, nessun medico avrebbe potuto salvarlo, da Ippocrate in poi. L’hanno beccato! Hanno sistemato il povero Daniel una volta per tutte. Hanno beccato anche me, come vede. Una pallottola, calibro trentotto credo, mi ha trapassato la coscia. Se mi avesse anche solo sfiorato l’arteria femorale, adesso non sarei qui! Sarei un cittadino dell’altro mondo, col povero Daniel al mio fianco. Invece sono riuscito ad allontanarmi a tentoni prima che divampasse l’incendio — come lei, signore, a quanto vedo — e il nostro coraggioso Carlos ha sparato al mascalzone che era di guardia all’uscita degli attori.
Il dottore rise con un suono cupo e gutturale, come quello soddisfatto, tra il coccodè e il chicchirichì, di un grosso gallo.
— E ora, signore, se lei mi scuserà per non essermi alzato, io la scuserò per non avermi stretto la mano. Me la mostri.
14. Il mare d’inverno
Il bar era vuoto. Un cartello bianco e nero su un sostegno di legno diceva: ACCOMODATEVI.
Lui si sedette a un tavolo vicino a una grande vetrata, simile a quella di una serra. Al di là della vetrata una bassa scogliera o un promontorio, o forse solo la parete della galleria ornata di bandiere da cui era appena uscito; ancora più oltre, una vasta distesa di sabbia sulla quale l’oceano aveva creato una cava identica a quella che lui aveva visto alcuni anni prima su un numero speciale di National Geographic: statue inespressive appoggiate o distese qua e là fra i resti e i frantumi di altre sculture, alcune ultimate, altre incomplete, altre ancora appena abbozzate, tutte ricavate da blocchi di ghiaccio marino.
Una lo stava fissando. Era una statua posta a una certa distanza sulla spiaggia, a metà strada fra la terra e l’oceano, che lo osservava insolente e silenziosa mentre lui prendeva il tovagliolo dal bicchiere e girava la tazzina di caffè.
Sembrava impossibile che la polizia avesse scelto un tale metodo per spiarlo, eppure era sicuro che fosse così. In qualche modo dovevano eliminare tutti quelli che avevano visto sul palcoscenico: lui, North, i due uomini d’affari, il dottor Applewood e l’uomo in divisa dell’esercito. (Ma quello era facile da eliminare… anche il dottor Applewood lo aveva detto.)
Anche lui era facilmente eliminabile. Il poliziotto aveva guardato nel suo portafoglio, aveva visto la chiave dell’albergo e aveva detto all’autista dove portarlo. Sapevano dove stava e sicuramente avevano mandato qualcuno a controllarlo.
— Vuole un caffè, signore?
La cameriera aveva circa vent’anni, molto petite, con i capelli neri tagliati corti che gli incorniciavano il viso come le ali di un morbido uccello nero, un uccello deciso a covare il suo volto ovale… o se l’aveva già covato, a proteggerlo dagli aspri eventi del mondo.
— Sì — lui disse. — E un succo d’arancia, se è possibile.
Lei rispose: — Vuole una spremuta, signore? — e gli strizzò l’occhio.
Lui era troppo sorpreso per riuscire a ricambiare l’occhiolino, ma rimase a osservarla mentre si allontanava trotterellando sulle sue scarpe nere lucide dai tacchi altissimi (perché era piccola di statura, si disse). Indossava una cuffietta bianca e un vestito di seta nera con un grembiulino bianco, come le cameriere in un vecchio film di Cary Grant.
Un profumo fragrante di caffè fresco gli fece capire che la ragazza aveva riempito la sua tazza, anche se lui non se n’era accorto. Il caffè era nero come il suo vestito, nero come le sue scarpe, e lui capì che non sarebbe stato più capace di vedere qualcosa di nero — un caffè o un cielo notturno — senza pensare alle scarpe o al vestito di quella ragazza. Mise un po’ di crema di latte nella tazza (cosa che faceva raramente), guardò fuori dalla vetrata e ricordò le notti con Lara.
Davanti all’albergo, a poco meno di mezzo miglio da dove lui sedeva, stava passando una grande nave bianca; procedeva lentamente come se andasse controvento con i motori al minimo. A scuola un insegnante una volta aveva detto: «Lenta come una nave dipinta su un oceano dipinto».
Era sicuro che Lara fosse sulla nave, su quella nave bianca che sarebbe sembrata molto più appropriata in Florida o in un posto simile, il Golfo del Messico, il Pacifico o il Mediterraneo. Era sicuro che Lara lo stava osservando col binocolo mentre lui sorbiva il caffè, sorbiva l’acqua ghiacciata che la ragazza dalle scarpe nere doveva avergli portato. Gli aveva portato l’acqua ghiacciata anche se lui non se n’era accorto, gli aveva portato l’acqua anche se lui era seduto davanti all’acqua e al ghiaccio che scorrevano in eterno. La ragazza portò la spremuta d’arancia e gliela posò davanti con la sua manina delicata ornata da lunghe unghie cremisi, una mano completamente priva di anelli. — Desidera altro, signore?
— In questo momento — lui disse — vorrei che lei si sedesse qui a parlare con me.
— Non posso, signore. Pensi se arrivasse il direttore.
— È un posto solitario questo — le disse lui.
— Lo so, signore. Lei è l’unico ospite… l’unico in tutto l’albergo.
— Mi meraviglia che lo tengano aperto.
— È il periodo peggiore dell’anno. In genere la stagione termina alla fine di luglio e ricomincia a marzo.
Cercò disperatamente di pensare a qualcosa da dire o a un commento da fare per trattenerla. — Viene tutti i giorni fin qui dalla città?
— Certo. Qui non c’è niente da fare. — Si guardò intorno per vedere se qualcuno poteva sentirla. — Voglio dire, per noi. Per gli ospiti è un’altra cosa.
— Sarebbe a dire?
— Oh, ci sono le terme, i campi da tennis al coperto, e così via. Ma noi non possiamo usarli. Cosa vuoi per colazione?
Lui notò con tristezza che adesso non aveva detto “signore”, anzi, gli aveva dato del tu. Non lo considerava più un cliente, ma solo un altro corteggiatore importuno. Lui domandò: — Che c’è di buono?
A bassa voce lei rispose: — Io — e poi in tono normale: — Perché non prendi una cialda? Il cuoco è un vero specialista. Ne abbiamo per tutti i gusti.
— Portami quella che preferisci.
La ragazza annuì. — Vado a prenderti altro caffè.
— Va bene, fai presto.
Lei si allontanò lentamente, annotando l’ordinazione sul taccuino. Quando scomparve dietro la parete divisoria, lui parlò all’inespressivo volto di ghiaccio sulla spiaggia. — Hai sentito quello che abbiamo detto? Riferirai tutto?