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— Forse paradiso. Forse inferno. Chissà?

Lui disse: — Lo saprei, se avessi un fiammifero.

Il cinese ridacchiò e il suono di quella risata somigliava al tintinnio di nove biglie d’avorio nelle bocche di nove leoni d’avorio. Sentì che gli metteva in mano una scatoletta di fiammiferi dura e squadrata. — Fiammiferi. Tu accende, poi tu sa.

Scosse la testa, ma si rese conto che il cinese non poteva vederlo. — Potrei appiccare un incendio.

— Allora inferno. Tu accende fiammifero.

— No — disse lui.

— Io accende — gli disse il cinese. Uno strofinio secco e un lampo di luce. Stavano accanto a un mucchio di materassi. Lo scantinato era ingombro di barili, bidoni, sporte, scatole e pile di libri. I travetti del soffitto erano appena a tre centimetri dalla sua testa, forse meno.

— Paradiso? Inferno? — domandò il cinese. — Ora sa.

— Paradiso.

— Ah! Tu saggio! Tu viene sopra, e beve tè. Uomo polizia guarda fuori e non trova.

Seguì il cinese su per una rampa di scalini ripidi, attraverso una botola, fino a una bottega zeppa di mercanzia. Lanterne di carta scarlatta con scritte in caratteri cinesi neri dondolavano dal soffitto e lunghi rotoli appesi a ganci sulle pareti mostravano tigri sinuose come serpenti.

— Tu vuole vende? Sheng compra. Tu vuole compra? Sheng vende — gli disse il cinese. — Tè no. Tè per niente, per amici.

Accese un altro fiammifero e il gas sbocciò violetto su un anello di ferro in una stanza minuscola dietro la tenda di perline.

— Ti sei già fatto un amico — disse lui.

— Tu vuole qualcosa, viene da Sheng. Bene! Tu vuole, Sheng dà. Se Sheng non ha, trova. Tu vuole siede?

Lui si mise a sedere in una fragile sedia di bambù che sembrava fatta per un bambino. Anche se fuori faceva freddo, sentì che stava sudando.

— Tè, spezie, fuochi artificio, medicine. Molte, molte cose, poco prezzo.

Lui annuì mentre si domandava quanti anni avesse il cinese. Era la prima volta che incontrava un cinese che non parlava correntemente americano. Se qualcuno glielo avesse chiesto (ma nessuno lo aveva mai fatto) avrebbe sicuramente risposto che c’erano centinaia di milioni di persone che non lo parlavano, e che non conoscevano altra lingua che la loro.

Ora si rendeva conto che esiste una bella differenza fra conoscere e comprendere.

Il cinese batté la pipa sul tavolo, la riempì di nuovo e l’accese sulle lingue di fuoco violetto. Dopo una o due tirate, mise un bollitore di rame tutto ammaccato sul fuoco. — Sheng dice: paradiso, inferno? Tu dice paradiso.

— Perché tu… cosa c’è?

La bambola si era mossa.

3. La parata

Con molta cautela tirò fuori la bambola dalla tasca. Prima aveva le gambe tese, ne era certo. Ora invece aveva un ginocchio lievemente piegato. Il viso era calmo e serio, avrebbe detto inespressivo, se non avesse amato quel viso così tanto. Le labbra erano leggermente incurvate.

— Ah, tu ammira dea!

Quasi inconsapevolmente, lui annuì.

— Ah, molto bene! Io vede?

Il cinese allungò la mano, e con un certo fastidio lui gli porse la bambola.

— Oh, molto bella! Molto bella! Lunghe gambe, piccoli piedi! — Il cinese ridacchiò. — Tu non piace Sheng tiene bambola. Sheng capisce.

Solo dopo averla riposta nella tasca si decise ad ammettere di aver temuto che lui non gliela restituisse.

— Presto Sheng mostra. Prima beve tè. — Il drago di fumo bianco della pipa si confuse, azzuffandosi, con il selvaggio drago di vapore del bollitore del tè. L’acqua bollente sgorgò nella teiera, seguita da una spruzzata di foglie fragranti.

— Presto — disse Sheng. — Molto presto. Piace teiera? Molto bella, poco cara. Porcellana di Nanchino, vecchia cento anni. Ho altre.

Lui annuì. — Come mai è arrivato fin qui, signor Sheng?

Il cinese sorrise. — Costruzione ferrovie. Quando giovane, pensa che lontano tutto è meglio. — Una mano sottile attorcigliò i baffi pensierosa. — Torna a casa ricco — disse il cinese con un sospiro.

— E vorrebbe ancora tornare a casa? — All’improvviso si accorse di essere rimasto incantato dalla storia di quell’ometto di mezza età dalla pelle scura. Era come se stesse osservando il suo stesso futuro in uno strano specchio orientale. — Anche lei era d’accordo con me che il suo scantinato fosse il paradiso.

— Paradiso per giovane. Così lui sogna. Lavora in ferrovia. Strappa camicia. — Il cinese si fermò pensieroso.

— Niente ago. Chiede amico, tu ha ago? Ha filo? Lui non ha…

— E allora?

— Va in città. Sabato. Compra filo. Chiede ago, negoziante non vende ago. Vende pacchetto, venti aghi. Sheng allora compra. Poi dice: tu vuole ago? Paga dieci centesimi. Così ecco Sheng. — Con un rapido gesto della mano dalle dita affusolate indicò il negozietto, poi afferrò lesto la teiera. Un liquido profumato si riversò nelle tazze. — Paradiso di Sheng.

— Capisco.

— Poi Sheng sogna altro paradiso, tanti bambini, tanti figli che prega per povero Sheng. Giovane Sheng sogna così, questo Sheng no. Legge Celeste dice: a un uomo, solo un paradiso.

Lui annuì, sorseggiando il tè bollente e domandandosi come avesse potuto distrarsi così facilmente dalla sua ricerca di Lara.

Senza alzarsi, il cinese allungò un braccio verso uno dei ripiani e prese una scatola laccata. — Ora Sheng mostra. Tu vuole tocca, va bene, tu tocca. Ma Sheng piace meglio tu non tocca.

Lui annuì, appoggiando la tazza. Il coperchio della scatola aveva delle scanalature lungo i bordi. Si ricordò vagamente di aver visto una scatola di biglie in un negozio di oggetti antichi che si apriva nello stesso modo. Dentro la scatola c’era una bambola, accuratamente vestita, non più lunga della sua mano.

— Questa Heng-O — spiegò il cinese. — Uguale tua.

Si chinò in avanti per guardarla meglio. Era senza dubbio lo stesso viso, come se un orientale avesse scolpito Lara, aggiungendo inconsciamente i tratti somatici che un artista orientale troverebbe normali e attraenti. Era vestita di pura seta; un costume che avrebbe potuto essere indossato da una minuscola imperatrice, punteggiato di uccelli ricamati e bestie strane.

— Com’è bella — disse al cinese. — Molto, molto bella.

— È così. — Il coperchio si richiuse silenziosamente. — Quando luna piena, lei è qui. Brucia joss. Fa solamente questo. Quando funerale Sheng, cuoce riso su tomba Sheng, lei vede me, sorride e dice: “Tu brucia joss per me”. Felice per sempre.

Lui annuì di nuovo e scolò il resto del tè, grato per il suo confortevole tepore. I loro sguardi s’incrociarono per un istante e lui capì che il cinese era suo fratello, nonostante le abissali differenze e che il cinese lo sapeva già fin da quando si erano incontrati nel vicolo.

— Ho abusato fin troppo della sua ospitalità, signor Sheng — disse. — Ora devo andare. — E si alzò.

— No, no! — Il cinese sollevò le mani coi palmi rivolti all’insù. — Tu non va, prima Sheng mostra merce!

— Se proprio insiste…

L’espressione impassibile del suo viso si aprì in un grande sorriso. — Tu vede tante cose. Dice amici. Loro viene e compra da Sheng. Sicuro!

Cercò di pensare ai suoi amici. Non ne aveva. — Mi dispiace, lei è il solo amico che ho, signor Sheng.

— Tu allora vive troppo solo. Tu guarda! — Era un mazzo di carte.

— Amuleto magico, porta amici! Tu impara poker, bridge, ramino. Tu va e dice. “Io vuole gioca, nessuno vuole?”. Presto, molto presto, tanti amici!

Lui scosse la testa. — Buona idea, ma io sono troppo timido.

Il cinese sospirò. — Niente amuleto per timidi. Niente licenza per vende liquori. Tu piace posta?

— Sì, molto.