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— La dottoressa Nilson… — In lontananza qualcuno chiamò: — Lara! Lara! — Non riuscì a distinguere se fosse una voce maschile o femminile. Era debole e stridula.

— Può restare in linea un momento, signor Green?

La donna non aspettò che lui rispondesse. Dopo un momento un pianoforte cominciò a suonare il “Chiaro di luna”.

Lui restò in attesa, ripetendosi che avrebbe aspettato tutto il giorno se fosse stato necessario. Il “Chiaro di luna” finì e cominciò un altro pezzo che non riconobbe. Finalmente un’altra voce disse: — Parla la dottoressa Nilson.

— Vorrei parlare con Lara.

— Con Lora? Se n’è appena andata.

— Allora voglio un appuntamento con lei il più presto possibile.

— Io non do appuntamenti. Prima si arriva, prima si viene ricevuti. Venga nel mio studio, al Centro di Igiene Mentale, e la riceverò appena posso.

Al secondo tentativo riuscì a dire: — Credo di essere venuto da lei altre volte. Dovrebbe avere la mia scheda. — Disse il suo nome.

Il tono di voce della dottoressa Nilson divenne cordiale.

— Oh, naturalmente, signor Green. Mi creda o no, stavo esaminando il suo caso l’altra sera e speravo che lei si facesse vivo. Ormai è più di un mese…

Lui cominciò a dire: — Se avesse provato a telefonare…

— Non lo faccio mai, se non in casi di emergenza. È meglio che siano i pazienti a mettersi in contatto con me di loro volontà. Venga pure subito, vedrò di riceverla immediatamente.

— Va bene.

— E ora, se vuole scusarmi…

Lora è andata via e c’è qualcuno sull’altra linea.

22. Il suo medico

Il sole aveva già addolcito l’aria pungente del mattino. Lui camminava a grandi passi con il soprabito ripiegato sul braccio lanciando occhiate alle vetrine. Era raro che al suo reparto toccasse una vetrina — le vetrine erano di solito riservate a quelli dell’Abbigliamento — ma quando succedeva, in genere affidavano a lui l’incarico di allestirla. Era un lavoro che lo interessava o almeno era questo che diceva a se stesso.

Mentre osservava le vetrine si domandava che cosa avrebbe fatto con i soldi del signor Sheng. Prudence (il fantasma di sua madre) gli consigliò di metterli in banca per i giorni di magra. Prudenza gli sussurrò che il Fisco poteva controllare i suoi depositi bancari.

Che spiegazione poteva dare? Non poteva spiegare in nessun modo il fatto di non aver denunciato l’entrata quando aveva consegnato la dichiarazione dei redditi. Invece aveva chiesto un rimborso perché pagava più tasse di quanto guadagnava. No, pensò, perfino l’Ufficio Imposte non l’avrebbe potuto biasimare per non aver denunciato quell’entrata; il modulo si riferiva all’anno passato e lui aveva comprato il denaro nell’anno in corso.

O no? Ora che ci pensava, c’era qualcosa stranamente fuori moda “Là”. La maggior parte degli edifici sembravano vecchi, e perfino quelli che apparivano nuovi avevano uno stile antiquato, erano costruiti con i mattoni tradizionali, avevano i vetri delle finestre che scorrevano su e giù come quelli delle finestre di una casa.

Le piccole automobili scomode gli erano apparse abbastanza moderne; quelle di vecchio tipo erano molto più grandi, con le code allungate e le portiere robuste come quelle del caveau di una banca. “Là” c’erano automobili moderne, anche se avevano il cambio a cloche, ma la Tv era solo in bianco e nero.

Cercò di ricordare la data del giornale su cui aveva letto la notizia della loro fuga e quella dell’incontro di Joe con un altro pugile di cui non ricordava il nome. Ma la data era scomparsa dalla sua mente, si era scolorita fino a diventare invisibile.

Con tutti quei soldi forse poteva fare una crociera ai Caraibi, come quelle di Love Boat. No, perché durante queste crociere si presupponeva che uno si dovesse innamorare di qualcuno, e lui non poteva innamorarsi di nessuno se non di Lara, e ne era già innamorato. Poteva pensare, come aveva fatto nel caso di Fanny, di andare a letto con qualcuno per due o tremila dollari.

Rise di sé. C’era stato un tempo in cui aveva frequentato bar per cuori solitari una o due sere alla settimana, ma tutto era finito quando si era reso conto che le donne non cercavano l’amore ma un marito. No, mai l’amore. Se voleva andare a letto con qualcuno poteva farlo più a buon mercato.

Alcuni uomini in tuta e caschi di sicurezza azzurri lavoravano poco distante dall’edificio. Cavi neri disegnavano morbide curve sul selciato. Fermò un operaio e timidamente gli chiese che cosa stessero facendo. L’uomo gli spiegò che stavano togliendo le linee aeree e le sostituivano con cavi sotterranei.

Lui annuì, lo ringraziò e rimase a guardare la strada, ricordando la porta significativa che non si sarebbe più aperta per lui. Un vigile gli toccò il braccio e indicò il Centro di Igiene Mentale. — È laggiù, signore. Vuole che l’accompagni?

— No. — Lui scosse la testa e si rese conto con un sussulto che per la prima volta da quando era un bambino si era messo a urlare e a strepitare in pubblico. Tirò fuori dal taschino il fazzoletto rosso, si asciugò gli occhi bagnati di lacrime e si soffiò il naso. Quando si sentì presentabile, entrò nell’edificio.

Di fianco agli ascensori una targa diceva che lo studio della dottoressa Nilson era al quarto piano. Si rese conto di saperlo già; sicuramente era scritto sull’elenco che aveva consultato. Chiamò l’ascensore e salì al quarto piano.

Nella sala d’aspetto c’erano tre pazienti: una donna esile dall’espressione malinconica, un ragazzo grasso di circa sedici anni che sorrideva al nulla, e lui. Fu costretto a mettersi a sedere fra i due domandandosi che cosa potevano pensare di lui, come lo avrebbero descritto: probabilmente un piccolo commesso dall’aspetto ordinato… anche se quel giorno non si sentiva molto ordinato.

Alla scrivania non c’era nessuno. Mentre erano lì, il telefono squillò sei volte, ma nessuno rispose.

Quando smise di squillare, lui si alzò ed esaminò la scrivania. Sul ripiano c’erano un vaso con una pianta, un tampone verde e una penna a sfera argentata tra le braccia di un koala rosa. Il cassetto conteneva matite, una penna a sfera, una scatola di fermagli e qualche elastico. A sinistra una finta fila di cassetti nascondeva un vano dentro al quale c’era una macchina per scrivere elettrica fissata a un sostegno retrattile. Sollevò la macchina per scrivere per vedere se c’era niente nascosto lì sotto.

La donna dall’espressione malinconica gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.

Non c’era da meravigliarsi se era così giù di morale, pensò. Non vuole che qualcuno si diverta.

I finti cassetti a destra nascondevano un vano dove c’erano dei contenitori con fogli di carta bianca e gialla, carta da lettere con l’intestazione del Centro di Igiene Mentale, buste assortite, carta carbone e carta velina.

Era tutto. Se la persona che aveva usato quella scrivania vi aveva mai conservato oggetti personali, doveva averli portati via. Pensò che anche un dizionario da ufficio avrebbe potuto rivelare il nome della proprietaria, scritto sulla copertina. Ma il dizionario, se mai c’era stato, non c’era più.

Sotto il tampone non c’era nulla e non c’erano etichette sul telefono. Il koala era grazioso e silenzioso. Lui tirò fuori la carta da lettere, la carta uso bollo bianca, la carta gialla e le scompigliò con la vaga idea che potessero nascondere qualcosa. Non c’era nulla. Anche la carta carbone, ancora intatta, e la carta velina non rivelarono nulla. La penna nel cassetto era di plastica, del tipo che i rivenditori di articoli per ufficio distribuiscono per pubblicità. Su un lato della penna c’era scritto SOC. LA TIGRE con l’indirizzo e il numero telefonico. Dall’altra parte: CENTRO DI IGIENE MENTALE — LORA MASTERMAN. Si infilò la penna in tasca e si rimise a sedere.