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Lui riusciva a malapena a capire le parole perché la testa gli scoppiava, ma fece cenno di sì.

— Quando uno scalcia e urla ne siamo felici — gli disse l’uomo. — perché sono quelli che strillano e imprecano che riescono ad andarsene via di qui, te lo ha detto nessuno? La gente come te ha ancora un po’ di pepe, non se ne sta buona buona senza protestare. Dice “ehi, io me ne andrò da questo posto!”. Solo che, se ci prendi a calci e a pugni, noi te li diamo indietro.

Lui fece di nuovo cenno di sì e disse: — Ho capito.

— Hai capito perché ti ho dato un pugno, non perché te l’ho spiegato.

— Va bene.

— Non darmi più calci e io non ti prenderò a pugni.

Lui domandò: — Conosci Lora?

— La segretaria della dottoressa Nilson? Certo.

— Che aspetto ha?

Lui si strinse nelle spalle. — È bianca, non ci ho fatto molto caso. Non ha le tette grosse, o roba del genere. A qualche ragazza bianca piacciono i neri, ma non succede spesso. Qualche volta abbiamo scherzato… non si dava arie.

— Era bella?

— Ma non se n’è mica andata via.

— Sì. Se n’è andata all’improvviso e ha portato via tutte le sue cose.

L’uomo sembrava scettico. — Ma quando ce ne siamo andati la dottoressa Nilson stava parlando con lei al telefono. È probabile che ritorni.

Lui annuì e domandò di nuovo: — Era bella? Lo è?

— Desideri che sia bella, amico?

— Credo di sì.

— Allora era bella. Tipo… grandi occhi azzurri e una di quelle facce di porcellana cinese, capisci che voglio dire?

L’uomo al volante disse: — Verdi.

L’altro gli domandò: — Che vuoi dire?

— Che quella Lora ha gli occhi verdi, scemo.

— Non dargli retta, amico — disse l’altro. — È matto. Allora, vuoi che ti tolga la camicia?

Era convinto che l’ospedale fosse in centro, invece era in periferia, in mezzo a prati ondulati coperti di giunchiglie in fiore. Soffiava un venticello fresco e limpido così diverso dai venti invernali. Vide che non c’erano sbarre alle finestre e disse: — Non sembra un ospedale psichiatrico.

— Infatti non lo è, amico. È un ospedale dove fanno nascere i bambini, inseriscono valvole cardiache e roba del genere. Così, se la gente ti chiede dove sei stato, tu glielo puoi dire e giurare anche in tribunale. Hai capito?

Lui annuì. Quando furono nell’atrio uno dei due parlò brevemente con la persona che stava all’accettazione. L’impiegata indicò l’ascensore. Al nono piano (era stato attento a notare quale pulsante avevano schiacciato) lo stesso uomo parlò a lungo con un’infermiera seduta dietro a una scrivania. Quando finalmente smisero di parlare, l’uomo disse: — Ora ti portiamo nella sala di soggiorno. Le ho detto che te ne starai tranquillo e non combinerai guai, hai capito? Adesso ti lasciamo qui e ce ne torniamo indietro.

Lui annuì ancora. Aveva annuito così tante volte che aveva perso il conto.

Il soggiorno era in ordine e pulito, ma lui sentiva la mancanza del vento primaverile. Cercò di aprire tutte e due le finestre senza riuscirci. Esaminò gli infissi e si accorse che i vetri erano molto spessi, nella stanza c’erano sette sedie laccate e un tavolino basso, laccato, con sopra una pila di vecchie riviste. Dopo un po’ gli venne in mente che forse in qualche rivista c’era la foto di Lara. Ne prese una e cominciò a sfogliarla pagina per pagina.

Stava scorrendo la terza rivista, quando un uomo calvo dall’aspetto esausto si sedette accanto a lui. — Le piace leggere? — domandò.

Lui scosse la testa.

— A me sì. Starei tutto il giorno a leggere, se non fosse per gli occhi che non ce la fanno. Così devo smettere e occuparmi dei miei pazienti, — L’uomo calvo ridacchiò.

— Cosa legge?

— Soprattutto libri di storia. Qualche romanzo. Devo leggere le pubblicazioni mediche. Siamo abbonati a Netsweek. The New Yorker, Psicologia oggi e Smithsonian. Mia moglie li legge sempre tutti, io solo qualche volta.

Lui disse: — Mi piacerebbe guardare qualche rivista di cinema. Non credo che questo le farà una grande impressione.

— Più di quanto lei pensi — gli disse l’uomo calvo. — La maggior parte delle persone non legge affatto.

— Ho sempre considerato i libri uno spreco di denaro.

— Lei sta molto attento al denaro?

— Ci provo.

— Ma adesso sta in ospedale. E gli ospedali sono molto costosi.

— La società per cui lavoro paga tutte le spese — spiegò lui.

Sentì all’improvviso un brivido di paura, e se non fosse stato vero?

L’uomo calvo tirò fuori un taccuino e una penna. — Che giorno è oggi?

Lui cercò di ricordare, ma non ci riuscì. — Mercoledì?

— Non ne sono sicuro nemmeno io. Sa che data è?

— Sedici aprile.

— Sa perché la sua società paga le spese per la sua degenza?

— Fa parte della politica aziendale.

— E perché pensano che lei debba essere curato?

— Perché sono stato via molto tempo, credo. Quasi un mese… anzi, no, più di un mese.

La penna danzava sul taccuino e la luce del sole entrando dalla finestra si rifletteva sulla penna d’oro. Sembrava che fosse la penna a parlare, non l’uomo calvo. — Voglio che con la mente torni indietro di una settimana. Non risponda subito. Chiuda gli occhi e torni indietro. Allora, dove si trovava una settimana fa?

Era il giorno in cui aveva incontrato Lara. — Camminavo lungo il fiume.

— Nel parco?

— Sì.

— Perché si trovava là?

— Mi ero portato il pranzo e l’ho mangiato seduto su una panchina. Avevo ancora quindici minuti prima di tornare al lavoro. — E poi spiegò: — Il negozio è vicino al parco.

— Quella mattina aveva lavorato?

— Sì.

Lo portarono in un’altra stanza, lo fecero svestire e gli fecero indossare gli abiti da ospedale.

Un uomo in uniforme bianca mise i suoi indumenti in una cesta di metallo.

Dopo un po’ arrivò un’infermiera che gli dette una medicina.

24. Il paziente

All’apparenza nella stanza di soggiorno c’erano molte cose da fare, ma giochi e passatempi erano solo un’illusione. In un armadietto sulla parete c’erano una mezza dozzina di rompicapo, ma tutti incompleti (occasione per prevedibili battute ogni volta che qualcuno ne tirava fuori uno). Il pianoforte aveva bisogno di essere accordato e tuttavia, anche se nel reparto nessuno sapeva suonare qualcosa di meglio delle “Tagliatelle”, ogni tanto qualcuno ci provava. Al mazzo di carte da gioco — tutte con le orecchie — che stava dentro il cassetto, mancavano l’asso, il due e il quattro di cuori. Il contenitore di palline da ping-pong era affidato alle cure delle infermiere che di norma dicevano di averle esaurite per evitare complicazioni.

O forse, pensò, erano veramente esaurite. Forse il contenitore era vuoto, magari da anni, e pieno di polvere all’interno come lo era all’esterno.

— Vuoi fare una partita a scacchi?

Lui alzò gli occhi. L’uomo con la scacchiera e la scatola dei pezzi in mano, era di mezz’età e aveva i capelli arruffati.

— Mancano i pezzi — disse lui.

— Possiamo usare qualche altro oggetto.

Lui fece cenno che andava bene e si avvicinò al tavolo. Utilizzarono due pedine, due pedine nere al posto dei pedoni neri e un re rosso al posto della regina bianca.

— Bianchi o neri?

Lui ci pensò su. Chissà perché la decisione gli sembrava molto importante. Studiò la regina bianca e quella nera, cercando di decidere quale fosse Lara. Quella bianca, naturalmente. Bianco per la sua carnagione, rosso per i suoi capelli. — Bianchi.