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Lui scosse la testa.

— Era H. Harris Henry in persona! — Quando si rese conto della sua mancanza di interesse soggiunse: — Il nostro presidente, il capataz della società. Vedrai che ti hanno inserito nel piano di partecipazione azionaria.

Lui annuì.

— Così riceverai la relazione annuale di bilancio. Ma tu non dai mai un’occhiata alle foto? Sarà meglio che cominci a farlo.

Lui decise che non l’avrebbe fatto, non gli era mai venuta voglia di leggere quel coso e ora, chiaramente, era troppo tardi. — Potevi dirmelo prima — le disse.

— E come facevo? Stavi parlando con lui! — Si mordicchiò il labbro inferiore. — Se andassimo a fare colazione insieme, potrei aggiornarti sulla Struttura Aziendale.

Pronunciò le parole così, con le iniziali maiuscole. Lui si voltò e andò via.

Una settimana più tardi arrivò l’ordine di trasferirlo al Reparto Antiquariato, nella sede dei quartieri alti. Il nuovo incarico rappresentava una sostanziosa promozione, ma significava anche che due volte al giorno era costretto a passare venti minuti su un autobus, a cui si aggiungevano un’altra ventina di minuti di attesa alla fermata. Fino ad aprile moriva di freddo fermo in strada e da giugno fino a settembre sugli autobus faceva un caldo insopportabile.

Il lavoro gli piaceva, anche se aveva individuato subito che alcuni pezzi esposti erano solo volgari contraffazioni. Se qualche cliente gli chiedeva informazioni su questi oggetti, lui leggeva la descrizione sul cartellino, premettendo “Allora, il cartellino dice che…”. Se il cliente gli era simpatico, arrivava anche a fare un impercettibile segno di diniego con la testa. Ma, poiché gli articoli in questione erano di grosse dimensioni, piuttosto vistosi, generalmente andavano a ruba, nonostante il suo parere negativo.

C’era però un pezzo particolare che avrebbe voluto per sé: un piccolo scrittoio di indiscutibile valore che circa duecento anni prima era appartenuto a un capitano di marina inglese. Da quanto poteva giudicare, era stato costruito in India in legno di sandalo e i cassetti avevano pomelli di opaline tolti a qualche oggetto ancora più antico. Tre cassetti avevano ancora il rivestimento originale di panno verde. Quando non aveva niente da fare, gli piaceva aprirli ed esaminarli con la sensazione che una volta o l’altra vi avrebbe trovato qualcosa che non aveva mai trovato prima. A volte si chinava per annusare il panno ormai sbiadito. Il capitano, pensò, teneva il tabacco nel primo cassetto a sinistra. Gli altri cassetti emanavano odori così impercettibili e indecifrabili che si domandava se non fosse la sua immaginazione a farglieli sentire.

Una notte sognò di stare seduto allo scrittoio. Il pavimento sotto di lui si muoveva, ondeggiava leggermente, si sollevava e ricadeva con un movimento che lui vedeva riprodotto in modo ancora più impercettibile nel calamaio di inchiostro nero in cui intingeva la penna d’oca. “Cuor mio” scriveva. “Il mio caro amico, il capitano Clough, del China Doll mi ha promesso di impostare questa lettera in Inghilterra. La sua nave è un clipper, quindi…”

Sul ponte sopra la sua testa si sentì un tramestio e un rumore di passi affrettati. Si alzò a sedere e dopo un secondo rideva di sé, benché qualcosa dentro di lui — qualcosa che faceva parte del vecchio capitano — non ridesse affatto.

Il giorno seguente un’orribile donna di mezz’età gli chiese di mostrarle lo scrittoio. — Manca la sedia — disse lui. — Senza la sedia non è completo.

— Va bene lo stesso — gli disse la donna. — Ne farò fare una. È abbastanza semplice.

Le disse il prezzo, tentando di farle capire che lui lo trovava troppo alto.

— Accettabile — disse la donna mentre toccava e curiosava.

Lui abbassò il tono della voce. — In gennaio, con lo sconto, potrà guadagnare trecento dollari.

La donna sorrise, il sorriso di un gatto che sente il canarino fra i suoi artigli. — Benissimo, dica di mandarmi un assegno.

Rinunciò a insistere e scrisse l’ordine, poi dette uno sguardo all’orologio. La donna aveva usato una carta di credito e per un momento sperò che l’ordine non venisse accettato.

Erano le sei meno dieci, mancavano dieci minuti alla chiusura. Dalla settimana seguente — solo dalla settimana seguente — il negozio sarebbe rimasto aperto fino alle dieci di sera, e a settimane alterne lui sarebbe dovuto venire al lavoro alle due e restare fino alle dieci. Sarebbero arrivati commessi stagionali che non potevano effettuare cambi e altri che venivano a lavorare per rubare. Grazie a Dio, però, in quel reparto ce ne sarebbero stati pochi.

Sentì suonare il primo campanello che annunciava l’ora di chiusura del negozio.

Al secondo, entrò nella sala di soggiorno per il personale per prendere un po’ di caffè. Le finestre erano buie. Si avvicinò ai vetri sorpreso che si fosse fatto scuro così presto. Ma certo, era finita l’ora legale, se n’era dimenticato.

Erano settimane che la gente parlava di quel bellissimo autunno; estate indiana, la chiamavano. Guardò attraverso i vetri bui le sagome che correvano frettolosamente lungo i marciapiedi. L’inverno era arrivato e prometteva di essere duro.

Aveva un cappotto pesante, un cappotto lungo di lana di un grigio così scuro da sembrare nero. Doveva essere da qualche parte e bisognava che si ricordasse di tirarlo fuori.

25. La bambola

Nell’autobus l’aria era calda e soffocante come sempre e la camminata a piedi dalla fermata al suo appartamento gli procurò un po’ di refrigerio. Quando arrivò a casa aveva completamente dimenticato la sua decisione. Il giorno seguente il vento si era calmato e il tempo era, o almeno sembrava, più caldo. La città era a sud e quindi gli inverni rigidi erano piuttosto eccezionali.

Quella settimana era proprio una di queste eccezioni. Prima che terminasse, non solo si era ricordato quello che voleva fare, ma aveva chiamato il custode e gli aveva detto che voleva riprendere lo scatolone che aveva lasciato in deposito nello scantinato.

— Ci tiene i vestiti pesanti, eh? — ridacchiò il custode. — Speriamo che non se li siano mangiati le tarme.

— Proprio così. L’ho sigillato con il nastro adesivo.

Il custode annuì. — Io ci avrei messo anche un po’ di naftalina. — Stava scegliendo tra una ventina di chiavi che teneva attaccate in un mazzo alla cintura. — Eccola qui.

La chiave non entrava nella serratura. Ne scelse un’altra. Solo al terzo tentativo trovò la chiave giusta che aprì la serratura con un clic di protesta.

— Quando la gente cambia casa io mi preoccupo di ricordargli questo posto — disse il custode. — Ma anche se hanno qualcosa qui dentro, se lo dimenticano regolarmente. Un sacco di gente ha messo della roba qui, ma lei è il primo che mi chiede di riprenderla. No… — Fece una pausa con una mano sulla maniglia e sollevando l’altra con un dito alzato. — La signorina Durkin una volta ha ripreso il vestito di sua sorella perché voleva regalarlo a un’amica, ma a quell’amica non piaceva e così l’ha rimesso qui.

Entrarono nel locale e il custode girò l’interruttore della luce. La stanza era ingombra di oggetti. — Capisce che voglio dire? Fra un po’ di tempo dovrò buttare via un po’ di roba. Solo che non vorrei… capisce? che la gente dica che rubo. Naturalmente non butto via niente di proprietà di quelli che abitano ancora qui.

Lui annuì, mentre cercava di ricordare che aspetto avesse lo scatolone. Era uno scatolone del droghiere?

— Non lo trova, eh?

— No — disse lui. — Ancora non l’ho visto.

— Forse sta dietro a questa, o sotto. L’ho messa qui circa un mese fa. — Il custode spinse a fatica una grossa valigia e dopo un momento lui, mosso a pietà, cercò di aiutarlo. Mentre spostavano la valigia, lo colpì l’idea che era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva provato pietà per qualcuno, eccetto forse per se stesso.