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Scosse la testa, ripiegò la mappa e la gettò sul cassettone ripromettendosi di esaminarla meglio dopo cena. Era molto tempo che non andava a mangiare nel ristorante italiano. Il locale era vicino al suo vecchio appartamento (i dintorni del suo vecchio appartamento gli erano tornati chiarissimi alla mente), ma era piuttosto lontano da dove abitava ora, circa dieci isolati, e a lui non piaceva camminare a piedi. Scoprì non solo di essere affamato, ma di avere anche voglia di collaudare gli indumenti ritrovati. Si cambiò le scarpe, indossò il panciotto, la giacca e i guanti, arrotolò la sciarpa intorno al collo e per finire si avvolse nel lungo cappotto scuro.

Fuori il vento rifiutò di collaborare. Era svanito insieme alla luce del giorno e nella notte fredda e chiara l’aria sembrava ristagnare sui ripiani di vetro come un calice di cristallo nel Reparto Chincaglierie. Si affrettò lungo la strada estasiato per la piuma evanescente del suo respiro, il calore del suo corpo, le guance gelate.

Mamma Capini c’era ancora e si ricordava di lui, era lui che a malapena si ricordava di lei. Gli dette il ben tornato e gli portò un fiasco di Chianti, omaggio della ditta. Lui ordinò un piatto di lasagne, bevve parecchi bicchieri di vino, e uscendo andò a sbattere contro un altro cliente.

L’incidente non era stato niente di grave. Lui si scusò, l’altro, un uomo di mezza età, gli disse di non preoccuparsi, e tutto finì lì. Ma nello scontro lui si era accorto che c’era qualcosa nella tasca interna del cappotto, qualcosa dalla forma allungata e irregolare. Dapprima pensò che fosse una bottiglia, poi una pistola, ma la forma era diversa. Si tolse un guanto e toccò l’oggetto con le dita. Sentì qualcosa di peloso, come se dentro la tasca ci fosse un animaletto dritto sulle zampe posteriori. L’euforia del buon cibo e del buon vino non gli fecero dare importanza alla cosa.

Quando arrivò a casa l’euforia era svanita e si scoprì curioso come un bambino di conoscere il contenuto delle sue tasche come lo era stato di conoscere quello dello scatolone. Sistemò con cura il cappotto sul divano e ripose quel che rimaneva del Chianti sul ripiano più basso del frigorifero. Poi tirò fuori dalla tasca quell’oggetto dalla forma strana che non gli era riuscito di cacciare dalla mente durante tutto il tragitto verso casa.

Era una bambola. La portò alla luce per esaminarla meglio; quello che aveva creduto pelo era invece una soffice capigliatura castana, all’apparenza veri capelli umani. Sotto la capigliatura un viso spiritoso, insieme bello e impertinente: una donna, una ragazza, dalle lunghe gambe, la vita sottile, i seni diritti, i fianchi rotondi e gli occhi nocciola che lo fissavano. Indossava una tutina verde senza maniche dai riflessi metallici con una cintura; scoprì con imbarazzo che era il suo unico indumento.

Perché aveva quell’oggetto? O forse non era suo? Anche se il cappotto e i guanti gli andavano alla perfezione, era più che probabile che non fossero suoi. Dopotutto, lui era di taglia media. Non aveva mai avuto una figlia, di questo era sicuro. E non era mai stato sposato, se lo sarebbe ricordato.

Ma era così semplice! Forse aveva avuto una relazione con una donna divorziata. Forse aveva comprato la bambola nel Reparto Giocattoli con lo sconto per i dipendenti, per regalarla alla bambina di lei; forse quando lo aveva fatto era Natale, come ora. Poi con quella donna doveva aver rotto e aveva messo via il cappotto senza vuotare le tasche.

Portò la bambola in camera da letto e la appoggiò sulla mappa. Ci avrebbe pensato più tardi.

Con sua grande sorpresa, ci pensò davvero. Non riusciva a seguire con attenzione il film di mezzanotte e allora andò a prendere la bambola, la portò in soggiorno e la tenne fra le mani come se fosse una bambina, ossessionato dalla sensazione che anche lui stava recitando in Tv, che dovesse la sua esistenza a qualche spettacolo senza spettatori, che lui e la bambola si erano persi, erano i bambini persi nel bosco della favola che sua madre gli aveva fatto vedere tanto tempo prima quando era molto piccolo.

Tirò su col naso e si vergognò, ridendo col cuore spezzato. Senza che se ne rendesse conto, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Tirò fuori il fazzoletto, si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. Ma una lacrima cadde sulla tutina verde, un’altra sulle piccole gambe ben fatte e un’altra ancora proprio sul viso spiritoso della bambola.

Nella sua mano la bambola si mosse come se fosse viva.

26. Un tè da matti

Stava quasi per lasciarla cadere in terra.

— Ciao! — La bambola si mise a sedere, o piuttosto lo fece come meglio poté, sul palmo della sua mano. — Ciao, io sono Tina. — Socchiuse i grandi occhi marroni e poi li fissò su di lui. Un’altra lacrima bagnò i capelli di Tina.

— Ti appartengo — disse Tina. — Sono la tua bambola e so parlare. — Il tono della sua voce era così acuto che quasi non riusciva a sentirla. Penetrante come il cri-cri di un grillo, pensò, o come lo squittio dei pipistrelli. — Se vuoi prendere il tè, posso aiutarti a prepararlo.

Lui annuì, più a se stesso che a lei, e disse: — Tu lo gradiresti?

— Sì, grazie — rispose compita la bambola. — Gradirei moltissimo un po’ di tè.

Lui annuì ancora. — Sai camminare?

— Sì, ma è meglio se mi porti tu. Se vuoi puoi tenermi in braccio come un bambino. — Nel vedere la sua espressione sgomenta, aggiunse comprensiva: — Oppure puoi tenermi sulla spalla… forse è meglio. Sai, cammino molto lentamente perché sono piccola. E se mi calpestassi, potresti rompermi.

Lui annuì compunto e si mise sulla spalla destra la bambola che si aggrappò con la manina minuscola al suo colletto. — Non camminare troppo velocemente e tutto andrà benissimo.

Lui disse: — Ci proverò. — Si soffiò di nuovo il naso attento a non muovere la testa e si asciugò le guance.

— Perché piangevi?

— Mi ricordi qualcuno, qualcuno che avevo dimenticato. — Esitò, temendo che quello che aveva appena detto potesse far torto a Lara. — O almeno che avevo rimosso dalla mia mente. — Si alzò in piedi e cercò di muoversi adagio e senza gesti bruschi. Poi disse: — Qui le bambole non parlano, almeno non così bene come te.

Tina non rispose.

Lui andò in cucina. Nel bollitore c’era ancora un po’ dell’acqua che aveva usato per il caffè, ma ormai era fredda e torbida. La gettò via, ne prese dell’altra e la mise a scaldare. In un barattolo c’erano delle bustine di tè, le ultime della confezione di tè esotico che aveva comperato con lo sconto nel Reparto Gastronomia. Aveva avuto l’intenzione di regalarlo alla vice direttrice del Reparto Biancheria Intima, ma non l’aveva mai fatto.

— Non so se ho una tazza adatta a te — disse.

Alla fine ne scelse una piuttosto piccola, ci mise una bustina e ci versò sopra l’acqua bollente.

Tina disse: — Posso parlare?

— Certo, perché no?

— Hai detto che le bambole non dovrebbero farlo. Vorrei un pizzichino di sale nel tè.

Lui l’accontentò. — Va bene così? Vuoi anche lo zucchero?

— No, grazie — cinguettò Tina. — Nemmeno latte. — Saltò giù dalla sua spalla come una pallina da tennis e restò in piedi sul tavolo con le gambe divaricate per bere dalla tazza che per lei era grande come lo sarebbe stato per lui il cestino della carta straccia.

Quando rimise la tazzina sul ripiano gli sembrò che fosse piena come prima, ma lei si batté la mano sul pancino e si pulì la bocca col braccio nudo. — Se lasci qui la tazza, posso berne ancora quando me ne viene voglia.

La proposta non gli sembrò più folle del fatto di stare parlando con una bambola. — Va bene — disse.

— Non voglio darti fastidio, ma non sono capace di fare le cose da sola. Non sarei stata nemmeno capace di aprire il rubinetto dell’acqua come hai fatto tu.