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Lui si chinò a guardare. — C’è solo un indirizzo.

— Lo legga e saprà tutto quello che so io. Ecco, la metto lì, così non le copre la Tv.

— La lasci pure davanti al televisore — disse lui. — Se la mette laggiù non riesco a entrare nel cucinino. — Tirò fuori una banconota dal portafoglio e la dette al fattorino che la prese senza dire una parola.

— Dovresti dire grazie — disse Tina in piedi sulla porta della camera da letto. Doveva essere riuscita a scendere da sola dal cassetto dei calzini.

Il fattorino girò intorno lo sguardo allarmato. — È lei che ha parlato?

— No.

— Allora forse era la Tv. — Fissò lo schermo spento. — Nell’appartamento accanto, probabilmente.

Lui stava guardando le assi spesse e ruvide della cassa e le testine dei chiodi lucenti come monetine. — Come faccio…

Le sue parole furono interrotte dal rumore della porta che sbatteva. Il fattorino se n’era andato.

Tina si avvicinò a osservare la cassa. — Avresti dovuto dire grazie — ripeté.

— Credevo che l’avessi detto al fattorino.

— Invece l’ho detto a te. Sono stata io a trovare l’amuleto e a fartelo indossare. Dovresti ringraziarmi.

Lui prese in mano l’amuleto che gli pendeva dal collo; non aveva cambiato né colore né dimensioni. — Forse è meglio che prima guardiamo cosa c’è dentro — disse.

— Ci sarà qualcosa di bello — gli disse Tina — natale è vicino e i regali di natale sono sempre belli.

Lui le fece un debole sorriso. — Non credo che saresti contenta se mi avessero regalato un cucciolo.

— O un’altra bambola… no, sarei gelosa. Mettimi sul divano, se ti va di chiacchierare. Io sono nata a natale… te l’avevo già detto?

La prese con due dita per la vita sottile e l’appoggiò sul cuscino accanto a lui. — No, non mi hai raccontato molto del tuo passato.

— Adesso sei tu a essere geloso.

— Non è vero.

— Sì, sei geloso. Si capisce benissimo. Sei un dio geloso, come quello di cui ho sentito parlare.

— Io non sono geloso e non sono un dio — le disse lui distratto. Stava pensando a come fare per aprire la cassa. Probabilmente il custode stava nel suo appartamento pieno di muffa nel seminterrato (era la sistemazione a cui aveva diritto per il suo lavoro). Ma il custode non avrebbe gradito di essere disturbato a un’ora così tarda e forse era già andato a dormire.

Tina disse: — Per te no, non lo sei, e nemmeno per le altre persone grandi. Ma per me sì.

— Ho capito.

— Io una volta avevo una dea.

Lui si fece attento. — Come si chiamava?

Tina scosse la testa. — Questo non me lo ricordo. Mi ricordo di un albero delizioso e di un gattino. La dea aveva anche un gattino. Non mi piaceva e quando hai parlato di un cucciolo me lo hai fatto venire in mente.

— Scommetto che la tua dea andava a scuola.

— Sì, sì. Dopo le vacanze di natale.

— Ti ricordi che classe frequentava? — Cercò d’indovinare l’età di Lara, forse ventotto anni. No, adesso ne aveva di più.

Tina scosse di nuovo la testa. — Sapeva camminare da sola, questo me lo ricordo. E mi faceva vedere delle cose che costruiva con la carta. Una volta ha fatto una corona e quando è tornata a casa ne ha fatta una piccola per me.

— E poi? — la sollecitò lui.

— Poi è successo qualcosa. Non so che cosa… qualcosa di brutto. E poi mi ricordo che mi tenevi in mano e piangevi.

Lui annuì. — Mi ricordo anch’io. Sai quanto tempo sei rimasta nell’ospedale delle bambole?

— Sono stata in un ospedale? Non me lo ricordo.

— Sì — disse lui. — Io so cosa significa. — Si alzò e girò intorno alla cassa. Pensava di trovare istruzioni tipo: TIRARE QUI. Invece c’erano solo il suo nome, il suo indirizzo e l’indirizzo del mittente in un quartiere della zona nord della città.

— È lì che mi hai trovato? In un ospedale?

— Sì.

Squillò il telefono. Lui rimase a fissarlo. Squillò di nuovo.

— Vorrei rispondere… davvero. Ma non sono abbastanza forte per sollevare quel coso dove si parla.

Il telefono squillò per la terza volta. Lui le disse: — Certo, non ci pensare. — Sollevò il ricevitore. — Pronto?

— È lei, fantastico! Ha cambiato casa?

Era Lara, lo aveva capito dallo squillo del telefono. Lo aveva capito subito. — Sì — disse. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma le parole gli rimasero in gola.

— Come sta? Va tutto bene?

— Sto benissimo. Dove sei, Lara?

— Sono Lora. Sto a casa, signor Green. Sono lusingata che riconosca la mia voce. Sarà sorpreso di sentire che la chiamo da casa, ma so che lavora tutto il giorno e non volevo telefonarle al negozio. Comunque ho provato a fare il numero prima di lasciare l’ufficio, ma non c’era nessuno. Ha informato la dottoressa Nilson di aver cambiato casa?

— Sì, gliel’ho detto.

— Ero sicura che l’avesse fatto, ma la dottoressa è una frana per queste cose. Voglio dire, se uno le racconta di aver sognato un pesce che balla il valzer come sua zia, lei ne prende nota. Ma quando si tratta di indirizzi e numeri del telefono… be’, li considera dettagli banali.

Lui disse: — Ti amo ancora.

Ci fu un momento di silenzio che durò un’eternità.

Alla fine Lara disse: — Stavo per dirle che quando ho lasciato lo studio, sono andata a cena… con una persona. Una persona mi ha portato fuori a cena.

— Va bene.

— Il suo solito appuntamento con la dottoressa Nilson è fissato per martedì, vero?

— Sì.

— La dottoressa è stata interpellata per un consulto… lei sa che al Centro non guadagna molto…

— Sì — disse ancora lui.

— Pensa di poter saltare il suo appuntamento questa settimana? Può fare questo favore alla dottoressa Nilson?

— No.

— L’altra possibilità sarebbe che lei venga domani. Succede spesso che alcuni clienti annullino il loro appuntamento. Ma anche in caso contrario forse riuscirò a fare in modo che la riceva ugualmente.

— Ci sarai anche tu? — Si accorse che mentre parlava con Lara stava guardando Tina. Era questa la ragione per cui aveva comprato Tina, naturalmente. Gli ricordava Lara, ma non era lei. Lora era Lara.

— Forse lei si meraviglia perché sono tornata a lavorare per la dottoressa Nilson dopo essere stata via tanto tempo. Mi sono sposata e ho divorziato. Adesso ricevo gli alimenti e un mensile per la bambina, ma ho bisogno di lavorare. Ho ripensato a questo lavoro… anche se il guadagno è poco, questo posto è stato il migliore che ho avuto, l’unico che mi sia veramente piaciuto. Inoltre sapevo che se avessi dovuto portare Missy dal medico, la dottoressa Nilson mi avrebbe dato il permesso senza difficoltà.

Lui esitava, incapace di scegliere tra le migliaia di cose che voleva dirle e le centinaia di domande che doveva farle. Per qualche strana ragione in quel momento lui si trovava in posizione di vantaggio, ed era della massima importanza che non sprecasse l’occasione. Sillabando le parole, disse: — Se vengo domani, pretendo che sia tu a farmi entrare dalla dottoressa. Voglio che mi dia la tua parola che ci sarai.

— Ci sarò sicuramente. Può venire dopo pranzo? All’una?

Si accorse di stringere in pugno il fazzoletto fradicio di sudore. Disse: — Se vuoi essere sicura che io venga all’una, permettimi di portarti fuori a pranzo. Mi faresti felice.

Ancora un momento di silenzio, più breve questa volta, ma sempre lunghissimo. — Se le dicessi che devo andare a trovare Missy all’asilo nido?

— Verrei con te. Mi piacerebbe conoscere Missy. — Lanciò un’occhiata a Tina. — Potrei portarle un regalo.

— Non è vero che devo andare. — Una breve pausa, poi aggiunse: — Andrò a prenderla quando esco dal lavoro stasera.