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Klamm annuì. — Nessun altro guardava? Altro forse fedefa uguale di lei, Herr K. Forse no. Più facile ke no. Allora Laura era ficina a lei e Laura fa fare qvesti sogni. Non so spiegare perché.

La conversazione si interruppe e lui ebbe l’impressione che nel momento in cui Klamm diceva non so dirle il perché, la limousine si fermasse davanti a un ospedale. In realtà non fu così. L’auto proseguì la strada dietro la macchina nera per almeno un altro miglio. Nel frattempo lui rifletté su quanto aveva detto Klamm che ora stava rannicchiato in un angolo come se dormisse. Quando arrivarono veramente davanti all’ospedale (S. Anchise, diceva l’insegna illuminata dal lampione), la limousine non si fermò davanti all’ingresso principale ma si diresse sul retro, verso l’entrata del pronto soccorso.

— Addio, Herr K — disse Klamm tendendogli la mano. — No, ormai lei ha diritto a suo fero nome. Addio, Herr Green, amico mio, ke la fortuna l’assista! Io chiamo lei Herr K perché qvesto nome ricorda me un fecchio amico. Un amico ke era io.

Lui strinse la mano di Klamm. — Addio, signor Klamm. Lei può chiamarmi come preferisce.

Una delle guardie del corpo aprì la portiera.

— Lei sa come parlare con me in mio ufficio, ja? O con altra persona ke decide in mio posto.

Con l’apertura della portiera si erano accese le luci all’interno della macchina e lui vide con stupore che gli occhi di Klamm erano pieni di lacrime. Disse: — Sì, signore, lo so.

— Prenditi cura di lui, Ernest. Guarda ke abbia buon dottore.

La guardia del corpo rispose: — Stia tranquillo signor ministro. — Lui scese dall’auto, la portiera si richiuse e la limousine scivolò via silenziosa.

Tina disse: — Che vecchietto delizioso.

La guardia del corpo le dette un’occhiata e sorrise. — Ha una bambola? Anch’io una volta ne avevo una.

Tina gli disse: — Dovresti prendertene un’altra.

Lui seguì la guardia del corpo in una stanza illuminata dove un orientale stava bevendo da una tazza di porcellana sbocconcellata. Quando li vide, si alzò per prendersi cura di lui. — Felice di rivederla — disse l’orientale. — Si metta pure a sedere.

Lui obbedì. — È bello vederla di nuovo, dottor Pillo-Lin. — Dopo un attimo aggiunse: — Pensavo che lavorasse in quell’altro posto.

— Sì, quando hanno bisogno di me. È qui vicino. Quella volta lei aveva un trauma cranico, ricorda?

— Certo — disse. — Ahi!

— Ha il naso rotto — gli disse il dottor Pillo-Lin. — Dobbiamo rimetterglielo a posto. Adesso le do un anestetico, ma le farà lo stesso un po’ male. Se lo è rotto facendo a botte?

Al suo posto rispose un’infermiera. — Sì, con un assassino. L’hanno fatto vedere alla Tv. — Senza smettere di esaminargli il naso il dottor Pillo-Lin disse: — Davvero?

La guardia del corpo domandò: — Può tenerlo qui per la notte, dottore? Domani mattina verrà qualcuno a prenderlo.

— Certo. — Il dottor Pillo-Lin si alzò e cominciò a riempire una siringa ipodermica.

36. La decisione

Un’infermiera lo svegliò per chiedergli cosa voleva a colazione. — Ha perso un paio di denti — gli disse. — Perciò niente toast o roba del genere. Pensa che ce la farà a mangiare un uovo strapazzato?

Lui fece cenno di sì e si mise a sedere sul letto. — Ho fame. Ieri sera non ho cenato.

Lei sorrise: — Questo spiega tutto.

Quando se ne fu andata, lui si guardò intorno. La stanza era più grande di quella che aveva occupato ai Riuniti e molto più piccola della corsia che aveva diviso con altri nove pazienti nell’ospedale psichiatrico di cui non riusciva a ricordare il nome. C’era un armadietto, come nella stanza ai Riuniti, ma non era chiuso a chiave. La sua giacca, i pantaloni e il cappotto erano appesi lì dentro. In basso c’erano le scarpe. Si ricordò che quando stava in macchina con Klamm non indossava il cappotto, quindi qualcuno lo aveva portato lì.

Frugò nella tasca interna della giacca e Tina disse: — Ciao, buongiorno. — E si stirò.

— Buongiorno. — Allungò la mano e lei si arrampicò sul palmo. — Di nuovo in ospedale — disse lui.

— Sei già stato in ospedale altre volte?

— Sì, ma tu dormivi. Ci sono stato spesso.

L’infermiera rientrò portando un vassoio. — Tenere quegli oggetti è contrario al regolamento.

— Mi dispiace, non lo sapevo.

— Dovrei portargliela via e chiuderla da qualche parte. Lei, comunque, sarà dimesso oggi, perciò non ne vale la pena. Ma non la faccia vedere a nessun altro.

— Me ne starò nascosta — disse Tina.

— Cosa vuole da bere? Abbiamo caffè, tè e latte.

Le domandò se poteva avere sia tè che latte e l’infermiera disse di sì. Ritornò con una tazza, un bricco di acqua bollente e un bicchiere di latte e poggiò tutto sul vassoio.

— Il tè è per te — disse a Tina quando l’infermiera se ne fu andata. Mise la bustina di tè nel bricco e un pizzichino di sale nella tazza.

— Buono, buono!

Lui le tenne la tazza mentre lei beveva. — Non vuoi mangiare qualcosa? Vuoi solo il tè?

— Va bene così — disse Tina. — Era tanto! Adesso mangia l’uovo così crescerai e diventerai forte.

Prese il tovagliolo per proteggersi le dita e tolse il coperchio al piatto di porcellana bianca.

— Non devi andare a scuola oggi?

— Non credo — disse lui. Sul vassoio c’era anche un panino soffice. Lo spezzettò e mise i pezzetti di pane nell’uovo, poi aggiunse un po’ di pepe e burro. — Aspetto qualcuno, ma non so se mi porterà a scuola.

— E dove ti porteranno?

— Non lo so — disse lui. Dopo un momento aggiunse: — Non so nemmeno se andrò con loro.

Dopo circa un’ora che aveva portato via il vassoio, l’infermiera ritornò con una sedia a rotelle. — Temo che dovrà sedersi qui — disse. — È il regolamento.

Lui si guardò intorno cercando Tina.

— Sta sotto il lenzuolo. La riporterò qui entro un’ora o giù di lì.

Lui esitò, poi disse: — Va bene. Dove stiamo andando?

— Dal dentista.

Mentre lo spingeva verso l’ascensore, lui si guardò intorno. L’ospedale sembrava uguale a tutti gli altri; meno moderno, forse, di quelli che ricordava di aver visto alla Tv, ma forse erano tutti così.

Il dentista era un donnone che guardò di traverso sia lui che l’infermiera. — Spalanchi la bocca — gli disse e quando lui lo fece, si chinò su di lui così vicino che sembrò volergli infilare la testa in bocca. — Un dente è venuto via di netto, l’altro si è spezzato ed è rimasta una parte della radice. — Si voltò verso l’infermiera. — Ci sarà bisogno di un’anestesia locale. Se vuole, lei può andare.

L’infermiera scosse la testa.

La dentista gli iniettò qualcosa nelle gengive, dopo di che lui e l’infermiera passarono un quarto d’ora nella sala d’aspetto in attesa che l’anestesia facesse effetto. — Se me ne andavo — disse l’infermiera — l’avrebbe messa fuori combattimento. — Lui annuì, avrebbe preferito che l’avesse fatto. Non gli era mai piaciuto farsi curare i denti e non gli sarebbe dispiaciuto addormentarsi.

Sul tavolo c’era una pila di riviste. Si mise a sfogliarne una e gli venne in mente che da quando era lì non aveva quasi mai letto nulla. Se l’avesse saputo, Tina l’avrebbe rimproverato; a quel pensiero si sentì in colpa e si mise a esaminare la rivista con più attenzione. Gli sembrava uguale a quelle del suo mondo fino a quando non arrivò a pagina quaranta, dove c’era Lara che sedeva in un giardino tropicale con una bevanda rosata in mano. I suoi capelli erano color dell’oro e la pelle di bronzo. “Marcella Masters si rilassa nella sua casa prima di iniziare la lavorazione di Atlantide”, diceva la didascalia.