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Strappò la pagina, la ripiegò e se la mise nella tasca del pigiama. L’infermiera sembrò scandalizzata, ma non protestò. Lui continuò a sfogliare la rivista velocemente fino a quando la dentista non lo richiamò, ma non trovò nient’altro di interessante.

Quando tornarono nella stanza, Fanny li stava aspettando. Mostrò il distintivo e una lettera che all’infermiera fecero molto effetto. — È tutto suo, sergente, se lo vuole.

Fanny gli sorrise: — Lo voglio.

L’infermiera aprì l’armadietto e dette un’occhiata all’interno. — Gli riporto la sua biancheria. Non ci vorrà molto.

— Va bene — le disse Fanny. E rivolta a lui: — Hai un aspetto terribile con tutti quei cerotti sulla faccia.

Lui le disse che si sentiva bene.

L’infermiera disse: — Ha perso anche un paio di denti, sergente. Fra due settimane dovrebbe tornare da un dentista per rimetterseli e fra due o tre giorni dovrebbe farsi controllare il naso. Può portarlo nello studio del dottor Pillo-Lin o portarlo qui. Il dottor Pillo-Lin glielo ha rimesso a posto ieri sera.

Fanny disse: — Va bene.

Quando l’infermiera se ne fu andata, Fanny disse: — Sei ritornato da dove eri venuto, vero? Voglio dire quella volta, in quel ristorante.

Lui annuì. — Non volevo farlo, ma l’ho fatto e non sono riuscito a tornare indietro. Be’, una volta sì, ma è durato solo pochi minuti. Poi ho ritrovato Lara e l’ho seguita — penso che lei me lo abbia permesso — ed eccomi qui.

— Spero che resterai qui — gli disse Fanny. — Adesso io sono responsabile della tua persona e se ti perdo per me saranno guai. Devi restare seduto su quella sedia?

— No — le disse lui. Si alzò in piedi per dimostrarglielo, poi sedette sul letto accanto a lei.

Questo gli fece ricordare Tina, infilò la mano sotto il lenzuolo e la tirò fuori.

Lei disse: — Ehi, nessuno deve vedermi qui!

— Non importa. Presto ce ne andiamo.

Fanny sospirò. — Quando sarai stato con me per una settimana o due, la butterai via.

Voleva fare cenno di no con la testa, ma si trattenne.

— Tu non muori, vero? — sussurrò Fanny. — Nel tuo mondo non morite. Possiamo continuare a farlo quanto vogliamo.

I suoi occhi lo mettevano in imbarazzo, perciò questa volta fece davvero cenno di no, pensando a Lara.

L’infermiera ritornò con un pacco di carta marrone legato con lo spago. Glielo dette e insieme a Fanny uscirono dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Lui ruppe lo spago e aprì il pacco, poi spiegò la camicia sul letto. La lavanderia aveva fatto scomparire le macchie di sangue e la camicia era tornata bianca, come nuova. Prese la foto di Lara dalla tasca del pigiama e la mise nella tasca della camicia.

Tina gli chiese: — Te ne vai con quella signora?

— Per un po’ di tempo — le disse lui.

— Non mi piace — disse Tina.

— A me piace — disse lui — ma non abbastanza. — Si tolse la giacca del pigiama e la buttò sul letto. — Ora voltati e chiudi gli occhi.

Lei ubbidì e lui sciolse il laccio dei pantaloni del pigiama e li lasciò cadere a terra. Dopo che si fu abbottonato la camicia pulita, le permise di voltarsi di nuovo.

— Avresti dovuto metterti prima i pantaloni — gli disse Tina in tono di ramanzina. — Adesso farai rientrare quelle signore?

— Ho indosso i boxer — le spiegò lui. — E poi la camicia è lunga. — Prese i pantaloni e si avvicinò alla finestra perché c’era più luce. Erano macchiati di sangue rappreso, ruvidi e rigidi. — Sarebbe stato meglio se avessero lavato anche questi — disse.

Nel portafoglio dentro la tasca posteriore dei pantaloni c’erano i soldi che ora qui non gli sarebbero serviti a niente. Le banconote con cui poteva fare acquisti stavano nella tasca col doppiofondo del cappotto, ma i guanti non c’erano più e la mappa era nell’altra tasca. Si passò il cordoncino rosso con attaccato l’amuleto del signor Sheng intorno al collo e infilò la radice sotto la canottiera, poi si annodò la cravatta macchiata di sangue come meglio poté, come se dovesse andare al lavoro. Quando finì di vestirsi, infilò Tina nella tasca interna della giacca e le disse di starsene tranquilla. Poi aprì la porta.

— Temo che dovrà mettersi di nuovo sulla sedia a rotelle — gli disse l’infermiera. — Non può camminare fino a che non lo dice il dottore.

Lui si sedette obbediente e lei lo spinse come aveva fatto prima, ma questa volta accanto a loro camminava Fanny che firmò il registro all’uscita. — Non c’è bisogno che lo indossi — le disse. — È una bella giornata. — Lui si mise il cappotto sul braccio.

Fanny aveva ragione. Appena lasciarono dietro di loro gli odori dell’ospedale, una leggera brezza primaverile gli accarezzò le guance. Nei grandi vasi di pietra ai due lati del passaggio che portava alla strada, le giunchiglie ondeggiavano salutandoli.

— Non ti senti molto sicuro sui trampoli, vero?

Scendeva i gradini reggendosi al corrimano. — Mi sento benissimo.

— Possiamo prendere un taxi. Ho il rimborso spese.

— Posso camminare. — Guardò su e giù per la strada che gli sembrò stranamente familiare. — Comunque credo che dovremo farlo. Vedi qualche taxi?

Fanny scosse la testa.

— Non sei venuta in macchina?

— No — disse lei. Si erano incamminati lungo la strada. — Stai pensando a quella volta al Grand Hotel. Ma non era veramente la mia macchina.

— Come hai fatto ad arrivare all’ospedale?

— Col tram — disse Fanny.

— Allora possiamo prenderlo anche adesso. C’è una fermata da queste parti?

— Una fermata?!

— Dove i tram si fermano e uno ci può salire sopra.

Fanny scosse ancora la testa e i suoi fitti riccioli scuri ondeggiarono alla luce del sole. — È così che fate nel tuo mondo? Qui per fermarli basta fare un cenno. Cosa stai guardando?

Era una vetrina, la vetrina di un negozietto che vendeva spartiti musicali. La canzone esposta sopra un leggio dorato era “Il vero amore”. Stava esposta lì da così tanto tempo che la carta polverosa era tutta ingiallita.

— Ecco un taxi — disse Fanny e chiamò: — Taxi!

Lui cercò con lo sguardo l’ospedale delle bambole. Vide l’insegna con l’immagine di una bambola vestita da infermiera.

— Il taxi si sta fermando. — Fanny lo tirò per una manica. — Andiamo.

Lui annuì e si voltò per seguirla sentendosi sperduto come quando si era ritrovato a correre nel vicolo del signor Sheng. Fanny aprì la portiera per farlo salire e lui disse: — Grazie.

— Dove andiamo, signore? — Il tassista era un po’ più giovane di lui e di bell’aspetto. Lui vide che Fanny stava girando intorno all’auto. Si mise a riflettere.

— Dove vi porto, signore?

Lui allungò la mano oltre il sedile e schiacciò la sicura della portiera. — Alla stazione ferroviaria — disse tirando su il finestrino. — Ma la signora non viene.

— Ah, ho capito! — L’autista sorrise ingranando la marcia.

— Sì — disse lui. — Ha capito bene. — Si voltò a guardare Fanny, sola in mezzo alla strada. Pensava che avrebbe tirato fuori la pistola o agitato il pugno verso di lui. Ma non fu così, c’era qualcosa di dolorosamente sconsolato nella sua figuretta nera.

— Siamo usciti dall’ospedale, vero? — Era Tina che aveva cacciato fuori la testa dal risvolto della giacca.

— Sì — disse lui.

— Dove stiamo andando?

— A Manea. — Parlò a bassa voce per non farsi sentire dal tassista. La polizia avrebbe potuto interrogarlo.

— Mi hanno detto che è un bel posto — osservò il tassista. — Sta vicino a Overwood.