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— Lara? — Chi poteva avergli mandato dei fiori se non Lara?

L’infermiera scosse la testa. — No, no! La dea. — Vedendo la sua espressione attonita, aggiunse: — La dea dello schermo argentato… non è così che la chiamano? Le porto subito un telefono.

Appena l’infermiera fu uscita, si voltò su di un fianco per esaminare il biglietto. Un monogramma del tutto incomprensibile contornato da un bordo dorato. Aprì il biglietto e vide una foto di Lara e il nome “Marcella” stampato in caratteri dorati.

Lara era una stella del cinema, una stella di nome Marcella. L’infermiera aveva visto la foto e l’aveva riconosciuta.

Eppure lui noleggiava film due o tre volte alla settimana e altri ne guardava nel programma i “Top del Box Office”; se Lara fosse stata un’attrice così famosa l’avrebbe riconosciuta subito. Non aveva riconosciuto nemmeno la foto sul biglietto, si era accorto solo che era Lara… anche la pettinatura era la stessa.

I muscoli gli facevano male. Si rimise sdraiato e vide che il volto di Lara era apparso di nuovo sullo schermo; cercò il telecomando, ma appena mosse la mano Lara sbiadì e scomparve. Schiacciò più volte il pulsante ON, ma il volto di Lara non riapparve. Qualsiasi bottone schiacciasse, il televisore non dava segno di vita, alla fine prese la seggiolina laccata, ci salì sopra e si mise a girare le manopole del televisore. Ma non riuscì a far illuminare di nuovo lo schermo. Gli venne in mente l’espressione che usava quando lavorava al Reparto Audiovisivi: il quadro era scomparso.

Quando l’infermiera rientrò nella stanza, lui era di nuovo a letto. — Mi spiace molto disturbarla ancora — disse. — Ma sembra che il mio televisore sia guasto.

Lei provò il telecomando, ma senza risultato. — Non si preoccupi, avverto il servizio riparazioni. Gliene porteranno uno nuovo domani.

Sentì un acuto senso di gioia quando lei si chinò a inserire la presa del telefono. — Ancora una cosa — le disse. — Mi vuole leggere per favore la diagnosi sulla cartella appesa in fondo al letto?

L’infermiera sollevò la cartella dal gancio come aveva fatto l’inserviente di colore. — Trauma, ematomi vari, alcolismo.

— Alcolismo?

— Non sono stata io a fare la diagnosi — gli disse brusca la donna. — È stato il suo dottore.

— Ma io non sono un alcolizzato!

— Allora non dovrà faticare per convincere il dottor Pillo-Lin a cambiare la diagnosi. Lei beve?

— Qualche volta. Ma non è un problema.

— Forse il dottore lo considera un problema più di quanto lo faccia lei. In particolare se il paziente cade per la strada e si procura un trauma cranico.

— C’è scritto davvero alcolismo?

— Gliel’ho detto. Vuole vedere?

— Ma non parla di cambiamento di sesso? — Gli era rimasta una sensazione di paura.

L’infermiera ridacchiò. — Gli hanno detto questo? È così che a volte chiamiamo l’alcolismo perché fa diminuire il testosterone negli uomini. La barba smette di crescere e quasi sempre diventano calvi.

Quando la donna se ne fu andata, allungò la mano verso il telefono, ma vide che tremava così forte che la tirò indietro. Nella stanza non c’erano specchi. Si alzò comunque dal letto convinto che dovesse essercene uno da qualche parte e rimase sorpreso nel vedere la sua faccia riflessa sul vetro scuro della finestra.

Il breve giorno invernale era finito. Fuori, le macchine, alte e dalla sagoma sgraziata come quella di una jeep, affollavano la strada con i fari abbaglianti accesi. I pedoni non avevano una loro individualità, ma apparivano come un fluido nero, spesso e lento come petrolio, che fluiva e turbinava ai bordi del traffico.

Gli venne l’idea che forse quel siero vischioso era davvero la realtà, che i volti e le figure a cui era abituato fossero in fondo falsi, come lo erano le microfotografie stampate sui giornali nei giorni in cui non c’erano molte notizie da pubblicare.

Immagini che trasformavano la pelle umana in un deserto roccioso e una formica o una mosca in un mostro peloso. Se era così che Dio vedeva gli uomini e le donne, chi poteva condannarlo se li dannava o li abbandonava al loro destino?

— So a cosa stai pensando.

Si voltò di scatto, imbarazzato al suono della voce. Un uomo piccolo, dal portamento eretto e la testa liscia come una biglia, lo osservava dal vano della porta. Con un certo sollievo notò che l’ometto indossava un pigiama come il suo.

— Stavo pensando alla posta — mentì. — Oggi qualcuno mi ha dato un amuleto che avrebbe dovuto farmi arrivare la posta, e io credo di averla già ricevuta.

L’ometto entrò nella stanza. — Vediamo.

— Mi riferivo alle rose… e a qualcosa che ho visto alla Tv, ma non posso fartelo vedere.

— Certo, un amuleto. Vediamo.

Lui si strinse nelle spalle. — Non posso mostrarti nemmeno quello. È chiuso nell’armadietto, credo.

— Se c’era Joe, apriva quella scatola di latta come la dinamite. — L’ometto scosse la serratura.

— Joe è l’inserviente?

L’ometto sorrise e scosse la testa luccicante. — Joe è il mio pugile. Io organizzo incontri di boxe. Joe è forte come due tori messi insieme. Spaccherebbe in due questa scatola di latta, se glielo chiedessi.

— Non credo che quelli della direzione dell’ospedale lo gradirebbero. Comunque, credo che il mio amuleto stia lì, ma non lo so per certo, perché non mi hanno dato nessun inventario o roba del genere.

— Joe è campione mondiale dei pesi massimi. Prima avevo altri due pugili, Mel e Larry. Ma quando Joe ha vinto il campionato mondiale, li ho lasciati andare. Mi sono interessato che li prendesse un altro agente, un buon agente. Loro hanno capito. Sanno che gli do una possibilità di fare un incontro, tutte le volte che posso. Questo è il mio biglietto da visita. — L’ometto mise la mano dove ci sarebbe dovuto essere il taschino della giacca, se avesse indossato un abito invece del pigiama. La ritirò vuota e sorrise di nuovo, questa volta con espressione imbarazzata.

Lui si sedette sul bordo del letto e indicò la seggiolina. — Perché non ti siedi? Io ho avuto un incidente e sono ancora un po’ debole. Possiamo sedere e parlare un po’ insieme.

— Grazie — disse l’ometto. — Mi piace stare seduto a chiacchierare… mi fa sentire come se stessi organizzando un incontro per Joe, capisci quello che voglio dire? Allora stammi a sentire! Ci devono dare un centomila, in anticipo, se no non facciamo l’incontro.

Lui disse: — Li avrai, non preoccuparti.

L’ometto annuì. — Così va bene, amico. Ho letto il tuo nome sulla cartella appesa al letto. Io mi chiamo Eddie Walsh, presidente della Walsh Promotions. — La mano di Walsh era piccola, fredda e dura.

— Piacere di conoscerti. Dove ci troviamo, Eddie? Come si chiama questo posto?

— Riuniti — gli disse Walsh. — Credevo che tu stessi pensando di uscire di qui. — Poi, accorgendosi del suo sguardo interrogativo, aggiunse: — Ospedali Psichiatrici Riuniti. Questo è il reparto non agitati.

5. North

Stava sdraiato supino con le mani ancora intrecciate dietro la nuca, cercando di addormentarsi. La corsia o l’ala o cosa diavolo fosse, stava già dormendo. Di tanto in tanto sentiva i passi felpati delle infermiere con le soprascarpe di gomma; e ancor più raramente il passo strascicato delle leggere pantofole di qualche paziente. Stava pensando al mondo.

Non al mondo in cui ora si trovava, ma al mondo reale, il mondo normale.

Là, i cino-americani parlavano inglese correntemente e diventavano fisici nucleari; le ragazze sui carri non invitavano gli uomini a montare. Nel mondo reale, pensava, gli alcolizzati non stanno in camere singole.