Frederik Pohl
Dolce triste regina delle isole vaganti
I
Fu perché gli feci un favore che il commodoro mi promise che avrei sempre avuto un lavoro nella Flotta. Io lo presi subito in parola, tant’è vero che ancor oggi mantengo quell’incarico. La mia qualifica, la paga e le condizioni di lavoro sono cambiate dozzine di volte da allora, e ultimamente non proprio in meglio. Ma perfino Jmmi Rex riconosce che ho diritto a quest’impiego e me lo garantisce. Miseramente.
Il favore che feci a James Mackenzie risale a molto tempo prima che diventasse commodoro, e avrei potuto finire in carcere per quella faccenda. — Jason — mi disse, — dammi un mese. Ho bisogno di una proroga nella scadenza del prestito, e se me lo fai avere non dovrai più preoccuparti di nulla finché vivi. — All’epoca io ero un giovanottello poco più che ventenne, un premi-pulsanti nel reparto-dati di una banca. — Invece dovrei preoccuparmi della legge — risposi. — Delle leggi sull’estradizione, se non altro, perché falsificare dati è un reato da codice penale. — Lui rise. — Soltanto se ti prendono — disse. — E non ne avranno la possibilità perché sarai in mare, dove le leggi nazionali non hanno giurisdizione. — In quel periodo stava facendo costruire la sua prima isola galleggiante, capite, e aveva usato tutto il denaro di sua moglie più quello che era riuscito a risucchiare a due suoi sostenitori finanziari. Il terzo sostenitore, quello più grosso, esitava ancora ad addossarsi il rischio.
Anche in quei giorni era un uomo potente, James Mackenzie. A quarant’anni non lo era forse più di molti altri, però disponeva di lampeggianti occhi azzurri e di un sorriso sicuro, e dovunque andasse sapeva come rivolgersi agli uomini con cui voleva parlare. Ma ciò che mi fece decidere non fu la promessa di Mackenzie: fu la sua giovane moglie, Lady Ella. Lo amava molto. Così una notte feci un po’ di straordinario e cambiai alcuni dati della sua documentazione, sudando di paura. Ebbe i suoi trenta giorni. E all’ultimo momento il finanziatore arrivò con il denaro per terminare la grande imbarcazione: così James Mackenzie diventò il commodoro.
Era un gran bastardo, il commodoro Mackenzie, però aveva stile. A me toccarono cinquanta azioni del carico e un titolo: Assistente Esecutivo del Comandante della Flotta. Faceva un bell’effetto, anche se la Flotta era ancora composta da un solo vascello. Ma un’isola galleggiante era una macchina possente e costosa, si rimorchiava attorno venti chilometri di tubazioni e pompe, e il ponte avrebbe potuto ospitare una cittadina di piccole dimensioni. Il commodoro fece una cosa da non credersi con quel ponte, o almeno con la parte anteriore: lo coltivò. Quando lo scafo era ancora in cantiere pompò a bordo mezzo milione di metri cubi di fango dal fondale della baia di San Francisco. L’acqua colò via dagli imbrinali e il terriccio rimase. Salpò quindi verso Tacoma per aspirare acqua fredda dalle profondità, e restò nella zona più umida e tempestosa della costa del Pacifico finché la pioggia non ebbe ripulito il fango. A bordo vennero portati semi, alberelli e bulbi, e quando iniziammo la nostra prima crociera avevamo già un prato, giardini e un piccolo bosco; perché la sua amata Lady Ella odiava il mare. La residenza del proprietario era dunque un appartamento nel sottoponte, con una veranda al disopra, e sedendovi lì avreste avuto l’impressione d’essere in una tenuta del continente cinta da siepi e prati, del tutto immobile e rallegrata da un’eterna primavera. Le isole galleggianti non aspettano mai la brutta stagione. Non sono piattaforme ancorate o fissate al fondale: devono andare a cercare i posti dove la temperatura dell’aria e del mare consente loro di funzionare e lavorare al meglio.
Per quattro anni tutto procedette bene, io fui felice e la grande barca navigò lentamente nelle zone più fruttuose nel meridione dell’oceano tirando su il freddo e mettendolo in funzione contro il caldo, e… oh, come affluiva il denaro! Nel quarto anno la nostra felicità giunse al culmine perché Lady Ella rimase incinta. Era una donna fragile, tutto spirito e niente energia, e c’erano giorni in cui perfino il mare più calmo la faceva star male. Ma con la gravidanza rifiorì, tornando deliziosa e splendente. E quando la bambina nacque era ancora più bella della madre. Fu nel mese di maggio, perciò la chiamarono May, ma subito dopo la felicità ebbe termine perché Ella morì. La causa non era stata il parto, dato che i migliori ginecologi venuti da Sidney e San Francisco l’avevano assistita. Fu un cancro. Lei era vissuta con quel segreto negli ultimi mesi e s’era rifiutata di lasciarsi operare perché il chirurgo avrebbe dovuto toglierle anche il feto dall’utero. La fatica del parto fu solo ciò che le tolse le ultime energie.
Sul letto di morte chiese d’essere sepolta sulla terra. Con occhi incapaci di piangere il commodoro andò negli alloggi dell’equipaggio e scelse la moglie di un meccanico, Elsie Van Dorn, una donna placida e robusta dai modi gentili. Quando poi tornò dal funerale prese tutte le azioni della Flotta che erano state di Ella, le trasferì a nome di May, e diede a me un nuovo incarico. — La Van Dorn sarà la sua nutrice — disse, — ma tu sei da ora il suo padrino e la terrai a battesimo. — Questo mi stupì perché il suo unico Dio era sempre stato il denaro. — Ti nomino Direttore Generale della Compagnia May Mackenzie, e se farai qualcosa di sporco ti ucciderò con le mie stesse mani. Anche se io non sarò più vivo la pagherai ugualmente, perché lascerò del denaro, degli ordini e un fucile a qualcuno che ti terrà d’occhio. — Era sempre in debito con me per quel favore, capite, ma non dimenticava come gliel’avevo fatto.
E poi seguirono sette anni in cui May crebbe come un fiore, finché cominciò ad essere quasi una signorinella.
Ci sono bambine con un volto così bello e uno sguardo tanto dolce che fanno breccia nel cuore di chiunque. May era una di quelle. Per la sua età era snella e delicata, ma anche quando muoveva i primi passi era capace di fermarsi nel suo recinto e spingere lo sguardo sul mare oltre le siepi, con la silenziosa nostalgia di un vecchio marinaio: la luce dolce e triste dei suoi occhi mi faceva dimenticare i pannolini sporchi e i capricci. Quando prese a parlare come una personcina adulta e ad allacciarsi le scarpe da sola ero già innamorato di lei. Non era un sentimento di cui riuscissi a ridere, così non dirò di più, ma era una cosa reale: l’amavo in modo puro, sincero, e continuai ad amarla sempre. Non come padrino.
Per quei sette anni, comunque, ebbe l’amore di suo padre. Era l’unica figlia femmina del commodoro, e la sua sola figlia legittima… la sola, in ogni modo, che io conoscessi, perché l’altro suo figlio, illegittimo, a quei tempi era a scuola e in seguito s’impiegò negli uffici a terra della Flotta. Il commodoro non aveva un momento libero in tutto il giorno, però trovava sempre il tempo di stare un po’ con May, di giocare con lei e di rimboccarle le coperte alla sera. Io ero alquanto meno indaffarato. Non c’era molto lavoro per il Direttore Generale della Compagnia May Mackenzie, visto che ogni suo centesimo era investito nella Flotta: dapprima due isole galleggianti, poi sette, quindi una dozzina. Il denaro affluiva, ma ogni dollaro veniva subito reinvestito. Così ero in competizione con Elsie Van Dorn, e diventai la seconda bambinaia di May. Furono gli anni più belli che avessi mai vissuto; me la portavo dietro per tutta l’enorme imbarcazione. Guardavamo le navi cisterna attraccare al nostro scafo per ricevere nel loro ventre capace l’ammoniaca da noi prodotta, tenendoci un fazzoletto sul naso per non sternutire, e ascoltavamo i sibili dell’idrogeno che pompavamo nelle navi frigorifero, mentre le luci rosse lampeggiavano per ammonire di non accendere fiammiferi e non creare scintille… come se nella Flotta ci fosse qualcuno tanto idiota! Scendevamo attorno alle grandi turbine a bassa pressione che trasformavano il calore in elettricità, e dalla poppa gridavamo grandi saluti agli equipaggi dei battelli da esplorazione che partivano in cerca di superfici più calde e fondali più freddi verso cui fare rotta. Ogni membro dell’equipaggio conosceva May e la coccolava quando lei lo permetteva. Non era un vero e proprio equipaggio, quello: era una piccola città. Avevamo gli addetti alla centrale elettrica, chimici e agronomi, oceanografi, macchinisti, ufficiali di rotta, cuochi, uomini tuttofare, cinque pompieri, ufficiali alle macchine e squadre di meccanici, e perfino giardinieri e contadini per le coltivazioni sul ponte. In tutto, a bordo c’erano oltre milleottocento esseri umani, e credo che May li conoscesse tutti per nome. Ma io ero quello che le stava più vicino: ero il suo padrino e il suo amico. I bambini erano un centinaio, e quattro ragazzine della sua età divennero le sue amiche del cuore, ma io continuavo a essere una persona speciale per lei.