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Negli alloggi dell’equipaggio! Io che amministravo tutte le proprietà personali di May, e che possedevo cinquanta azioni con diritto di voto. Solo un quarto della Flotta era intestato a Ben, mentre May era la proprietaria degli altri tre quarti, e tuttavia questo non ci serviva a molto: Ben aveva dalla sua il testamento, e poteva usare il diritto di voto delle azioni di May finché lei non avrebbe compiuto trent’anni. Io non riuscivo a capacitarmi che il commodoro avesse inserito una clausola così assurda. Ma quando feci una capatina a Reykjavik per consultare un avvocato, al Tribunale del Mare, mi fu detto che non c’era speranza d’impugnare il testamento. Al ritorno raccontai a May una bugìa, preferendo non dirle dov’ero stato e cos’avevo cercato di fare.

Ma la giovane donna non mi domandò niente. In quei primi mesi era totalmente assorbita dal bambino, se lo coccolava, cantava per lui, lo accudiva… e faceva una vita stressante, perché già allora il piccino era la più insopportabile e capricciosa creatura che avessi mai visto. May trascorreva le giornate nel giardino o sul bordo della grande piscina ovale, cinta da palme, con Jimmy Rex che frignava fra le sue braccia o frignava sul suo lettuccio lì accanto. Io ero sempre nei pressi per alleggerirla del lavoro o farle compagnia. E Betsy non mancava mai di comparire, esibendo gioielli e abiti costosi, di cattivo gusto, tallonata dalla piccola corte di avidi e striscianti giovanotti che erano suoi ospiti tutto l’anno. Sempre con un occhio invidioso su May e sul bambino.

Non ci voleva molto a capire ciò che voleva: qualunque cosa May avesse, Betsy gliela invidiava. Aveva perfino desiderato quel superficiale e sofferente Frank Appermoy… e l’aveva avuto, se non altro per il tempo di qualche salto sul suo lussuoso letto, come s’era affrettata a farmi sapere poi. E ora voleva il piccolo Appermoy. Dapprima avevo creduto che desiderasse semplicemente un bambino: non le sarebbe stato difficile farne uno, con tutti quei cicisbei che le stavano attorno. E m’ero detto che a scoraggiarla era stata l’idea che avrebbe dovuto sposare uno di costoro, e soprattutto il pensiero dei disagi della gravidanza e del parto. Ma mi ero sbagliato. Quello che lei voleva era James Reginald Appermoy, con tutte le sue coliche e i suoi strilli. E lo voleva per il solo motivo che lui era di May.

Così per sei o sette mesi May fu la perfetta immagine della giovane madre premurosa, mentre Rex era la perfetta immagine del lattonzolo molesto, opprimente e insopportabile. Poi il bambino fu svezzato, e lei parve tornare a contatto con il mondo. Forse cominciò a capire che era sola. Io ero l’unico vero amico che avesse a bordo. Non per colpa sua: se qualcuno dei circa settemila dipendenti di quell’isola cominciava a diventarle amico, Betsy lo riferiva a Ben e la persona in questione veniva trasferita. Perfino le altre quattro May potevano venire a bordo solo per un paio di giorni alla volta, sobbarcandosi un lungo viaggio in aereo all’andata e al ritorno perché in quel periodo ci trovavamo in pieno oceano. Così non mi meravigliai quando la mia dolce fanciulla prese a cercare un po’ di distrazione molto lontano da lì: un party a New York, una caccia alla volpe in Inghilterra, un po’ di sci in Svizzera, o la stagione teatrale a Tokio o a Parigi. Se stava via pochi giorni lasciava a me il piccolo Jimmy Rex, e io ce la mettevo tutta per essere affettuoso. Se l’assenza era più lunga lo portava con sé, e mi trovavo senza niente da fare e nessuno a cui parlare: anche i miei amici subivano molti e improvvisi trasferimenti. Avrei desiderato un’altra Elsie Van Dorn, o la stessa Elsie, però lei in quel periodo lavorava come motorista sulla vecchia isola galleggiante, e non volevo vederla coinvolta nelle angherie di Ben. Provai perciò con una successione di ragazze raccolte nelle cucine o negli uffici, nessuna delle quali resistette per più di un paio di settimane. Rimandai al loro lavoro quelle che non erano abbastanza robuste e pazienti da sopportare il piccolo demonio, mentre Ben trasferiva regolarmente quelle che invece sarebbero state adatte.

E cominciarono ad arrivarmi delle lettere anonime. Una al mese. Alcune provenivano dall’Australia, altre da Seul o da Città del Capo, ma tutte contenevano lo stesso avvertimento: Se ci tieni alla vita, aiutala. Adesso.

Ma cos’avrei potuto fare?

Non avevo bisogno dello sconosciuto sicario per sentire la necessità di aiutare la mia May. Trovai una scusa per assentarmi di nuovo, e stavolta riuscii a consultare un avvocato migliore, o semplicemente più costoso. Non si limitò a dirmi che il testamento del commodoro non poteva essere impugnato: mi diede due giorni del suo tempo, illustrando le Leggi del Mare e citando casi precedenti. La sua parcella fu superiore a quella del primo avvocato, le sue conclusioni identiche: Ben aveva la legge dalla sua fino al trentesimo compleanno di May.

Fu la sola volta in cui andai sulla terraferma, quell’anno. Avrei voluto seguire May in uno dei suoi viaggi per scoprire se lontano dall’isola galleggiante se la sentisse di parlare più liberamente della questione, oltreché, a dire il vero, per il piacere di starle vicino. Lo avrei fatto, non avrei chiesto di meglio che poterlo fare… se almeno con una parola o con uno sguardo lei mi avesse fatto capire che voleva il mio aiuto. Quella parola non venne mai; lo sguardo, forse.

Era di partenza per New York con il bambino, quel giorno. Io portai in braccio Jimmy Rex fino alla pista dov’era in attesa uno dei jet della Compagnia, e presso la scaletta le diedi i suoi documenti. — A New York per la stagione teatrale! Non sapevo che tu amassi tanto l’opera lirica — dissi, e May mi sorrise.

— Un po’ di cultura non farebbe male neppure a te, Jason, caro — sospirò. Poi tacque, e si volse a guardare pensosamente il mare caldo e immenso. Conoscevo bene quello sguardo. Quasi mi sarei aspettato di vederla mettersi il pollice in bocca, seduta a gambe incrociate su un’aiuola come quand’era bambina, malinconicamente perduta nei silenzi dell’orizzonte lontano. Il pilota aveva terminato i suoi controlli e ci stava guardando con impazienza perché doveva rispettare un orario di volo, ma May restò a fissare l’oceano per dieci minuti buoni. Quando si volse ebbi l’impressione che fosse sul punto di parlarmi.

Non disse nulla. Il suo sguardo si spostò su qualcosa alle mie spalle e cambiò idea. — Arrivederci, allora, caro Jason — disse, e mi baciò. Si fece consegnare il bambino e scomparve nel velivolo.

Mentre indietreggiavo per allontanarmi dal jet inciampai nella persona la cui vista l’aveva azzittita. Era Ben, il fratellastro. Malgrado fosse appena una dozzina d’anni più anziano di May appariva logoro, teso e irritabile. Accanto a lui c’era Betsy, con una smorfia impermalita sul volto.

Il getto d’idrogeno ardente sibilò, spinse nel cielo l’aereo e si fece troppo accecante per consentire agli occhi di seguirlo. Betsy si volse a me. — Eravamo venuti per augurarle buon viaggio — sbottò acidamente, — ma sembra che May non sprechi molta cortesia con la famiglia.

Il velivolo era a un chilometro di quota e continuava a salire. Ben si schermò gli occhi con una mano per seguirne l’allontanamento. — Jason — disse, senza guardarmi, — parliamo un po’ d’affari. Voglio comprare le tue azioni.