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I due contendenti si trovavano sopra un iceberg dalla sommità frastagliata, che veniva trascinato vorticosamente dalle correnti infide di un oceano di metano e ammoniaca. La montagna di ghiaccio si stava sgretolando rapidamente, e la sua completa distruzione avrebbe segnato la fine del duello.

Massan avanzava sul terreno accidentato, mentre le pinze e i rulli della tuta-veicolo si adattavano automaticamente alle asperità, e concentrava tutta l’attenzione sul rivelatore a raggi infrarossi che stava sospeso davanti alla sua visiera.

Un blocco di ghiaccio, grosso come una testa d’uomo, attraversò l’atmosfera fuligginosa: scendendo con la ripida inclinazione caratteristica sui pianeti ad alta gravità urtò contro la sua spalla. Il colpo fece perdere l’equilibrio a Massan prima che i servomotori si riadattassero e lui ritrasse il braccio dentro la manica dello scafandro per tastare la saldatura interna. Era ammaccata, ma non incrinata. Una perdita sarebbe stata tragica, fatale.

Poi, all’improvviso, ricordò: Posso venire ucciso solo direttamente dal mio antagonista! È una delle regole del gioco.

Tastò di nuovo, attentamente, la saldatura della spalla per assicurarsi che non perdesse. La duellomacchina e le sue norme sembravano tanto remote e insostanziali, in quell’inferno gelato e urlante.

Cominciò a ispezionare attentamente l’iceberg, deciso a trovare Odal e a ucciderlo prima che la loro isola galleggiante si disintegrasse. Esplorò ogni sporgenza, ogni crepaccio, ogni pendio, percorrendo la montagna di ghiaccio da un’estremità all’altra.

Ma il tempo passava, in fretta. Anche con l’aiuto dei servomotori e delle unità di propulsione, muoversi sul ghiaccio contro il vento ruggente era un’impresa faticosa. Tuttavia Massan continuò ad avanzare, lottando contro la paura sempre crescente che lo assaliva nel constatare che Odal era del tutto introvabile.

Poi il rivelatore captò un impercettibile tremito d’ombra. Qualcosa, o qualcuno, si era nascosto fulmineo dietro una sporgenza del ghiaccio, sull’orlo estremo dell’iceberg.

Massan avanzò cautamente lungo la base del pendio. Strappò una delle bombe a ossigeno dalla cintola e la strinse nella mano destra. Proseguendo sempre lungo la base si fermò, eretto, sulla striscia sottile di ghiaccio che correva tra la parete e il mare ribollente. Non vide nessuno.

Forzò al massimo la portata del rivelatore e puntò i dispositivi di esplorazione verso la sommità del blocco ghiacciato.

Eccolo! La figura scura di un uomo si delineò sullo schermo del detector. Contemporaneamente udì un boato sordo e subito dopo rombi e schianti che si facevano sempre più forti e minacciosi. Massan guardò in su e vide una piccola valanga di ghiaccio rotolare verso di lui. Quel demonio aveva fatto esplodere una bomba sulla sommità dell’iceberg!

Massan cercò di ritirarsi ma era troppo tardi. La prima scheggia gelata rimbalzò sul casco senza fargli male, però le altre gli fecero perdere l’equilibrio e i servomotori non ebbero il tempo di farglielo ritrovare. Barcollò ciecamente per alcuni istanti, mentre una quantità di ghiaccio sempre maggiore gli franava addosso. Infine precipitò nel mare ribollente.

Rilassati ordinò a se stesso. Non perdere la testa. Lo scafandro e i servomotori ti terranno a galla. Non puoi crepare per un incidente! Dev’essere Odal in persona a darti il colpo di grazia!

Sul retro dello scafandro c’erano i razzi d’emergenza. Un tocco a un pulsante sulla cintura li avrebbe azionati e, se riusciva ad orientarsi, i razzi lo avrebbero rilanciato sull’iceberg. Si torse leggermente e, col rivelatore a raggi infrarossi, cercò di valutare la distanza che lo separava dalla montagna di ghiaccio. Era difficile perché lo scafandro sobbalzava moltissimo nelle correnti vorticose.

Decise infine di accendere i razzi: avrebbe regolato i comandi per la distanza e l’orientamento quando fosse stato sospeso in aria.

Ma non riuscì a muovere la mano.

Tentò ancora. Tutto il braccio destro era come bloccato, non poteva spostarlo di un millimetro. E non riuscì a muovere neppure il sinistro. Qualcosa o qualcuno gli immobilizzava le braccia. Non riusciva neppure a sfilarle dalle maniche.

Si dibatté, cercando di liberarsi dalla stretta. Niente da fare.

Poi lo schermo del rivelatore fu sollevato lentamente dalla finestra del casco. Qualcosa vibrò sull’elmetto. Qualcuno stava staccando i tubi dell’ossigeno.

Urlò e cercò di liberarsi. Inutile. Sibilando i tubi si staccarono. Massan sentì il sangue pulsare nelle vene e si divincolò disperatamente.

Adesso veniva spinto verso il fondo. Urlò ancora e cercò di liberare il corpo dalla stretta, ma le acque spumeggianti sommersero la visiera del casco. Ormai era sott’acqua e qualcuno lo teneva fermo. E ora, ora stavano staccando la visiera.

No! Non fatelo! Il mare di ammoniaca e metano irruppe attraverso l’apertura.

È soltanto un sogno! gridò Massan a se stesso. Soltanto un sogno! Un sogno! Un…

11

Il professor Leoh fissava, senza vederla, la tavola da pranzo. Hector l’aveva convinto a recarsi al ristorante, e poi era andato al telefono per chiedere ai meditec le ultime notizie sulla faccenda di Massan che poche ore prima era stato estratto dalla duellomacchina privo di vita.

Leoh sedeva con le mani abbandonate in grembo, la mente perduta dietro pensieri che correvano in direzioni diverse. Odal aveva espresso il suo rincrescimento con notevole faccia tosta, poi era tornato all’ambasciata di Kerak sotto una buona scorta di guardie in borghese. Il governo dell’Ammasso di Acquatainia stava letteralmente andando in frantumi, e nessuno voleva assumersi la responsabilità del comando per non esporsi ai pericoli che avrebbe comportato quell’incarico. Un’ora dopo il duello le truppe di Kanus erano sbarcate su tutti i maggiori pianeti di Szarno: l’annessione era ormai compiuta.

E che cosa ho fatto, dopo il mio arrivo qui? si chiedeva Leoh. Niente. Assolutamente niente. Me ne sono stato lì seduto come un vecchio professore sonnolento, gingillandomi accademicamente con la macchina mentre uomini più giovani e più vigorosi l’hanno usata per raggiungere i loro scopi.

L’avevano usata. Un frammento d’idea faceva capolino dietro quella parola. Era qualcosa di nebuloso, a cui ci si doveva accostare con cautela per non farlo svanire. Usata… Usata… Leoh giocherellò con quella parola per alcuni minuti, poi rinunciò, con un sospiro di rassegnazione. Dio mio, sono troppo stanco anche solo per pensare!

Concentrò l’attenzione su quello che lo circondava, sulla sala da pranzo affollata. Era davvero un bel posto, arredato con oggetti di cristallo e legno autentici e tende di stoffa. Niente di sintetico. E c’era l’odore di cibi deliziosi, il mormorio soffocato della conversazione discreta. Camerieri, cuochi e inservienti erano uomini in carne e ossa, non i soliti robot che si trovavano ormai in quasi tutti i ristoranti. Improvvisamente Leoh si sentì commosso dalla premura con cui Hector aveva cercato di distrarlo e… dallo stipendio che veniva corrisposto ai sottotenenti della Guardia Spaziale!

In quell’istante vide il giovane che ritornava verso il tavolo. Ma prima di approdare alla sicurezza relativa ella sua sedia, Hector urtò due camerieri e inciampò in una poltroncina.

— Che cosa hanno detto? — domandò il professore.

— Non sono riusciti a rianimarlo — rispose l’ufficiale con voce sorda. — Emorragia cerebrale, secondo i meditec. Dovuta a shock.

— Shock?

— Così hanno detto. Qualcosa deve aver sopraffatto il suo sistema nervoso.