L’elmo gli si era messo per traverso: ora bisognava decidere se brancolare attorno alla cieca, o posare la spada e rimetterlo a posto. Il problema fu risolto da un colpo sulla nuca che gli fece schizzar via l’elmo come un fuscello.
Hector si alzò a fatica: la testa gli girava vorticosamente. Gli ci vollero parecchi secondi prima di accorgersi che la battaglia era terminata.
Quando la polvere si fu dispersa vide che tutti i guerrieri kerakiani erano a terra, tranne uno. Il cavaliere dall’armatura nera si tolse l’elmo e lo gettò lontano. Era Odal. Oppure no? Sembravano tutti uguali. Che importa? si domandò Hector. La mente del maggiore è quella che domina.
Odal se ne stava in piedi, a gambe larghe, la spada in mano, fissando indeciso gli ufficiali della Guardia Spaziale. Tre di questi erano appiedati, gli altri ancora in sella. Il maggiore kerakiano sembrava non meno confuso del suo antagonista. Lo shock provato nel trovarsi di fronte un numero uguale di nemici aveva smorzato molta della sua spavalderia.
Avanzò con cautela verso l’avversario, puntandogli contro la spada. Gli altri ufficiali della Guardia Spaziale si tenevano immobili in disparte, mentre Hector si ritirava lentamente inciampando sul terreno accidentato.
Odal fece una finta e colpì Hector al braccio, di striscio. Dopo un’altra finta alla testa il kerakiano calò un fendente al torace. Hector non riuscì a parare, ma la corazza lo salvò. Odal continuava ad avanzare. Ad un tratto… crac! La spada del sottotenente volò lontano.
Per un istante tutti rimasero immobili, come impietriti. Poi Hector si lanciò con un balzo disperato contro Odal, lo assalì di sorpresa, lo fece cadere a terra e gli strappò la spada di mano gettandola via. Ma Odal lo colpì alla tempia e lo fece cadere supino. Entrambi si rialzarono e arrancarono per impossessarsi delle armi più vicine.
Il maggiore afferrò un’ascia a due lame, dall’aria molto pericolosa, e una delle Guardie Spaziali a cavallo porse a Hector una sciabola enorme. Il sottotenente l’afferrò con tutt’e due le mani, ma vacillò nel sollevarla alta sopra la testa.
Sempre con la sciabola alzata, Hector si scagliò contro il nemico che, ansante e sudato, stava rannicchiato ad aspettarlo. L’arma pesava molto e Hector non fece caso all’elmo che giaceva a terra davanti a lui.
Odal, da parte sua, avendo calcolato perfettamente il tempo che l’avversario avrebbe impiegato per balzargli addosso e colpire, aveva deciso di scansarsi al momento opportuno e di affondare l’ascia nel petto del sottotenente. Poi avrebbe affrontato gli altri. Era probabile che, con la sconfitta del capo, il duello terminasse automaticamente. Tuttavia Hector non sarebbe morto: Odal poteva sperare al massimo di vincere l’incontro.
Hector caricò secondo le previsioni di Odal, ma ci mise più tempo del previsto. Infatti, proprio mentre stava per abbassare la sciabola in un fendente micidiale, inciampò nell’elmo. Odal scartò, poi vide che l’avversario stava piombando a capofitto sul terreno e che la pesante arma fendeva l’aria a casaccio.
Il maggiore arretrò confuso, ma ricevette una tremenda sciabolata proprio sul polso. Si lasciò sfuggire l’ascia di mano e, istintivamente, si strinse il polso ferito con la sinistra. Il sangue gli scorreva tra le dita.
Scuotendo la testa con amara rassegnazione voltò allora le spalle a Hector, che giaceva ancora sul terreno, e si allontanò.
La scena svanì piano piano, ed il sottotenente si ritrovò seduto nella cabina della duellomacchina.
15
La porta si aprì e Leoh sbirciò nella cabina.
— State bene?
Hector sbatté gli occhi e concentrò di nuovo lo sguardo sulla realtà. — Spero di sì.
— Tutto normale? Le Guardie Spaziali vi hanno raggiunto?
— Per fortuna! Per poco non sono rimasto ucciso.
— Però siete sopravvissuto.
— Finora.
Sull’altro lato della sala c’era Odal, in piedi, intento a massaggiarsi il polso. Kor gli chiese: — Come hanno fatto a scoprire il segreto? Chi gliel’ha detto?
— Non ha molta importanza, ora — disse il maggiore, pacatamente. — Non solo hanno scoperto il nostro trucco, ma hanno anche trovato il modo di servirsene.
La testa calva e lucente di Kor, che arrivava appena al mento di Odal, era rossa di rabbia.
— Maledetti ipocriti — latrò l’uomo. — Accusano noi di inganno, poi ci rubano la ricetta.
— Non hanno alcun rispetto per i valori morali — disse Odal, ironico. — È chiaro che ormai non serve più chiamare assistenti guidati telepaticamente. Affronterò il mio avversario da solo, nella seconda ripresa del duello.
— E voi credete che quelli faranno lo stesso?
— Sì. Hanno sconfitto facilmente i miei uomini, poi si sono tirati in disparte e hanno lasciato che noi due combattessimo da soli.
— E non siete riuscito a sconfiggerlo?
Odal si rabbuiò. — Mi ha colpito per puro caso. È un avversario davvero insolito. Non riesco a capire se è goffo come sembra, o se cerca semplicemente di trarmi in inganno. Comunque, è impossibile prevedere le sue intenzioni. — Poi aggiunse tra sé: Che sia telepate anche lui?
Lo sguardo di Kor divenne freddo, inespressivo. — Naturalmente sapete in che modo reagirà il Duce, se non riuscirete ad uccidere l’ufficiale della Guardia Spaziale. Non basta sconfiggerlo. Deve morire. L’aura di invincibilità che vi circonda dev’essere mantenuta a tutti i costi.
— Farò del mio meglio — disse Odal.
— Deve morire.
Si udì il rintocco che segnava la fine dell’intervallo di riposo. Odal e Hector tornarono nelle rispettive cabine. Ora toccava al sottotenente scegliere il posto e le armi.
Odal si ritrovò in tuta spaziale, avvolto dalle tenebre. I suoi occhi si abituavano solo gradatamente. Rimase immobile per parecchi minuti scrutando nel buio, all’erta, con i muscoli tesi e pronti all’azione istantanea. Il profilo delle rocce dentellate si stagliava confusamente contro lo sfondo di innumerevoli stelle. Il maggiore provò a muovere un piede, ma questo rimase appiccicato alla superficie. Scarponi magnetizzati pensò. Dev’essere un planetoide.
Quando gli occhi furono abituati all’oscurità, capì che aveva ragione. Era su un piccolo asteroide del diametro di un chilometro e mezzo. Gravità, quasi zero. Niente atmosfera.
Girò la testa dentro il casco a boccia e vide, a destra, la figura del sottotenente, lunga e sgraziata perfino nello scafandro ingombrante. Per un attimo si domandò quale arma fosse meglio usare. Poi Hector si chinò, raccolse una pietra, si raddrizzò, la lanciò al di sopra della testa di Odal e rimase a guardarla fluttuare nell’oscurità dello spazio, da cui non sarebbe tornata mai più. Un tiro intimidatorio.
Sassi? pensò il maggiore. Sassi invece di armi? Dev’essere pazzo. Poi ricordò che una massa inerte non risente della gravità o della mancanza di questa. Su quell’asteroide una roccia di cinquanta chilogrammi poteva essere trasportata con estrema facilità. Per essere lanciata richiedeva uno sforzo normale, e avrebbe causato notevoli danni, al momento dell’impatto, indipendentemente dal suo peso gravitazionale.
Odal si inginocchiò e scelse una pietra grande come il suo pugno. Si alzò piano, mirò a Hector che se ne stava cento metri lontano e tirò con tutte le sue forze.