Il sole era un piccolo disco bianco-azzurro alto nel cielo di Meklin, uno dei pianeti ad agricoltura forzata di Kerak. Lì, sulla sommità della catena montuosa, il vento sferzava Odal con un soffio gelido nonostante il calore delle terre coltivate sottostanti. Il cielo era senza nubi e gli alberi, mossi dal vento, frusciavano in un mosaico rosso e oro contro l’azzurro.
Odal vide Runstet seduto sull’erba, in una chiazza di sole, con la moglie e tre bambini. Il più grande, un ragazzo, poteva avere al massimo dieci anni. Stavano godendosi un pic-nic, e ridevano di qualcosa che Odal non riusciva a capire.
Il maggiore fece un passo avanti. Runstet lo vide e impallidì. Poi si alzò per affrontarlo.
— Non è questo che mi aspettavo di vedere — disse Odal, pacato. — Avevate qualcosa di meglio da fare.
Runstet rimase inchiodato sul posto, mentre tutto intorno a lui cominciava a tremare, a confondersi. I bimbi e la moglie, che ridevano allegramente, si fecero sempre più indistinti, e la loro risata svanì. I boschi sembrarono annebbiarsi, poi scomparvero del tutto. Niente era più visibile tranne Runstet e l’espressione terrorizzata della sua faccia.
— State cercando di nascondermi i ricordi che mi interessano, sostituendoli con altri — disse Odal. — Sappiamo che vi siete incontrato con certi ufficiali d’alto rango dell’esercito, in casa vostra, tre mesi fa. Avete dichiarato che si trattava di una riunione di società. Vorrei vederla.
Runstet, più vecchio di lui, la mascella quadra, i capelli grigio-ferro, lottava per mantenere il controllo dì sé. Odal sapeva che aveva paura, ma captava anche qualcos’altro: rabbia, caparbietà, orgoglio.
— Gli ufficiali di grado inferiore non erano invitati alla festa. Era strettamente riservata ai miei vecchi compagni d’arme, maggiore. — Il generale Runstet pose l’accento sull’ultima parola, con tutta la velenosità che gli riuscì di metterci.
Odal si sentì invadere da un’ondata d’ira, ma rispose con calma. — Posso ricordarvi che vi trovate in arresto e che, perciò, non avete più alcun grado? E se insisterete nell’impedirmi l’accesso ai ricordi riguardanti quell’incontro, verrete interrogato con sistemi più stringenti. — Poi Odal pensò: Sciocco! Sei un uomo finito e non vuoi riconoscerlo.
— Fate pure tutto quello che volete — disse Runstet. — Droga, tortura, da me non caverete niente. Usate questa maledetta duellomacchina anche per cento anni, ma io non vi dirò assolutamente niente!
— Devo ricostruire la scena per voi? — domandò Odal, impassibile. — Ho perquisito la vostra casa di Meklin e possiedo un elenco degli ufficiali che hanno partecipato alla riunione.
— Quando il maresciallo Lual saprà come i suoi assassini anno trattato un generale, verrete sterminati! — tuonò Runstet. — E voi! Siete anche voi un ufficiale! Bell’onore per l’uniforme che portate!
— Io devo fare il mio dovere — rispose Odal — e sto cercando di risparmiarvi interrogatori più spiacevoli.
Mentre il maggiore parlava, la nebbia si dissolse e i due si ritrovarono in piedi in un salotto spazioso. La luce del sole entrava a fiotti attraverso le porte aperte del patio. Una dozzina di uomini, in uniforme dell’esercito, sedevano sui divani. Ma erano silenziosi, immobili.
— Ora — disse Odal — mostratemi esattamente che cosa è successo. Ogni parola, ogni gesto, ogni espressione dei visi.
— Mai!
— Questa è in se stessa un’ammissione di colpa — sbottò Odal. — Voi avete complottato contro il Duce. Voi e un gruppetto di altri generali.
— Non accuserò nessuno — disse Runstet, caparbio. — Potete anche uccidermi, ma…
— Possiamo uccidere anche vostra moglie e i bambini — insinuò l’altro, piano.
Il generale rimase a bocca aperta e Odal sentì che il panico gli serpeggiava nelle ossa. — Non osereste mai! Neanche Kanus in persona lo farebbe…
— A volte capitano degli incidenti — disse Odal. — Per quanto riguarda voi, tutti, in Kerak, sono convinti che vi troviate in ospedale per un esaurimento nervoso. La vostra povera moglie potrebbe suicidarsi, oppure tutta la vostra famiglia potrebbe morire in un incidente d’auto mentre viene a trovarvi all’ospedale.
Runstet sembrò accartocciarsi tutto. Non si mosse né disse una parola, ma il suo corpo sembrò svuotarsi, piegarsi. Dietro a lui, uno dei generali sembrò risvegliarsi. Si protese e disse: — Quando saremo pronti ad attaccare gli acquatainiani, fino a che punto si potrà sperare che Kanus permetta all’esercito di agire senza interferenze politiche?
5
— Non capisco assolutamente che cosa mi è successo — spiegò Leoh a Spencer e Hector. — Non mi lascio mai sopraffare dai nervi.
Si trovavano nell’ex aula universitaria che ospitava la mole incredibile della duellomacchina. Nessun altro era ancora entrato. Mancava un’ora al duello con Ponte.
— Andiamo, Albert — disse Spencer. — Se quel piccolo uomo politico avesse parlato a me come ha fatto con voi, quasi l’avrei fatto fuori sui due piedi.
Leoh si strinse nelle spalle. — Questi acquatainiani sono gente emotiva — continuò Spencer. — Francamente, sono contento di andarmene.
— Quando partirete?
— Non appena questo duello cretino sarà finito. È evidente che Martine non vuole accettare alcun aiuto dalla Federazione. La mia presenza qui non fa altro che irritare lui e il suo popolo.
Hector parlò per la prima volta. — Allora scoppierà una guerra tra Acquatainia e Kerak. — Lo disse tranquillamente, guardando lontano, come parando a se stesso.
— Entrambe le parti vogliono la guerra — disse Spencer.
— Per stupidità — borbottò Leoh.
— Per orgoglio — corresse Spencer. — Lo stesso tipo di orgoglio che fa combattere gli uomini nei duelli.
Scosso, Leoh stava già per rispondere quando vide il sorriso sulla faccia color cuoio di Sir Harold.
La sala si riempì lentamente. I meditec addetti alla duellomacchina entrarono, uno alla volta, e cominciarono a controllare le varie parti dell’apparecchio. L’équipe aveva un uomo in più davanti a un nuovo dispositivo: con la sua attrezzatura controllava i duelli e si assicurava che nessuno dei duellanti ricevesse aiuto telepatico dall’esterno.
Ponte e il suo seguito arrivarono puntuali all’ora stabilita per l’incontro, ma solo quattro cronisti apparvero nella galleria della stampa, in alto. Leoh aggrottò la fronte. Un duello che riguarda l’inventore della macchina dovrebbe suscitare più interesse da parte dei servizi d’informazione, pensò.
Poi i contendenti si sottoposero ai controlli medici, alle istruzioni riguardanti l’uso della macchina — istruzioni che erano state scritte da Leoh stesso — e il professore ebbe la scelta delle armi.
— Come arma scelgo le leggi elementari della fisica — disse Leoh. — Non sarà necessaria alcuna istruzione speciale.
Gli occhi di Ponte si dilatarono per la sorpresa e i suoi secondi si scambiarono un’occhiata. Anche i meditec si guardarono, perplessi. Dopo un silenzio pieno di tensione, il meditec capo annuì.
— Se non avete obiezioni — disse — procediamo.
Leoh sedette pazientemente nella sua cabina, mentre i meditec gli collegavano i neurocontatti alla testa e alla schiena. Strano pensò. Ho azionato la duellomacchina centinaia di volte, ma questa è la prima volta che il mio avversario, nell’altra cabina, è veramente adirato con me. Vorrebbe uccidermi.
Infine i meditec uscirono e chiusero le porte delle cabine. Leoh era solo, ora, e fissava i colori cangianti dello schermo. Cercò di chiudere gli occhi, ma non vi riuscì. Tentò ancora e, con grande sforzo, ce la fece.
Quando li riaprì, si trovava al centro di un’enorme stanza che aveva l’aria di una palestra. C’erano finestre in alto, vicino al soffitto.