— Vi fidate a uscire, adesso? — domandò uno dei militari che, come Odal, aveva i gradi di maggiore.
Odal si rilassò un poco. — Ma certo.
I tre uomini lasciarono l’edificio, diretti a un’auto in attesa. — Avete affrontato la morte con coraggio — disse l’altro militare, un colonnello.
— Grazie. — Odal riuscì perfino a sorridere. — Però non è come essere uccisi dal nemico. Comunque mi ero impegnato in una missione suicida che ho portato a termine.
12
— Io… Be’, hai visto che cosa è successo — disse Hector a Geri. — Come si poteva fare qualcosa, in quella calca?
Se ne stavano seduti insieme, in un ristorante vicino allo studio tri-di, dove Leoh veniva festeggiato da una deputazione dei cittadini più importanti di Acquatainia.
La ragazza infilzò un boccone con la forchetta. — Forse non avrai più occasioni di ammazzarlo — disse. — Probabilmente, in questo preciso momento, sta tornandosene a Kerak.
— Be’, può anche darsi. Ma l’assassinio non è un bene!
— Non sarebbe un assassinio — disse lei, gelida, guardando fissa nel suo piatto. — Sarebbe un’esecuzione. Odal merita di morire. E se non lo fai tu, ci sarà qualcun altro disposto ad accontentarmi.
— Geri, io…
— Se mi amassi davvero, l’avresti già fatto. — Era sul punto di scoppiare in lacrime.
— Ma…
— Me l’avevi promesso!
Hector curvò le spalle, sconfitto. — Va bene, non piangere. Io… troverò una soluzione.
Odal sedeva nell’ufficio dell’ambasciatore di Kerak, che si era ritirato discretamente non appena era giunta la comunicazione con Kor.
Il maggiore se ne stava seduto dietro un’enorme scrivania, piazzato comodamente nella soffice poltroncina girevole imbottita. A un tratto lo scherno, che occupava tutta la parete in fondo alla stanza, sembrò dissolversi e apparve lo studio di Kor, in penombra. Il ministro dei Servizi Segreti guardò Odal per qualche istante e poi disse: — Mi sembrate sollevato.
— Ho compiuto felicemente una missione spiacevole — disse il maggiore.
— Lo so. Ora Leoh sta facendo in pieno il nostro gioco. Gli acquatainiani lo considerano il loro salvatore e la paura che provavano per il maggiore Par Odal è scomparsa. E con questa, anche la paura di Kerak. Associano Leoh con l’idea di salvezza e vittoria. E mentre brinderanno alla sua salute e ascolteranno i suoi discorsi pomposi, noi li colpiremo!
Anche se il ministro era presente nella stanza solo in immagine, Odal capì benissimo che cosa aveva in mente: prigioni più grandi, un maggior numero di prigionieri e celle d’inquisizione piene di gente terrorizzata e impotente che strisciava solo a sentire il nome di Kor.
— Adesso — continuò il ministro — vi aspettano nuovi doveri, maggiore. Non spiacevoli come il suicidio, però. E questi dovranno essere svolti qui a Kerak.
— Non desidero affatto ricominciare a interrogare altri ufficiali dell’esercito — rispose Odal, pacatamente.
— Me ne rendo conto — rispose Kor, aggrottando i sopraccigli. — Quella fase della nostra investigazione ormai è terminata. Ma ci sono altri gruppi di persone che vanno interrogati: voi, certamente, non avrete niente in contrario ad interrogare diplomatici… membri del Ministero degli Esteri.
La gente di Romis? pensò Odal. Ma quello è matto. Romis non sopporterà mai di vedere arrestare i suoi seguaci.
— Sì, Romis — rispose Kor, come se avesse letto nei pensieri del maggiore. — E chi altri avrebbe lo stupido orgoglio di capeggiare complotti contro il Duce?
O meglio, l’intelligenza… pensò Odal. Poi disse, forte: — Quando dovrò tornare a Kerak?
— Una nave sarà pronta per voi domattina.
Odal annuì. Allora mi resta solo stanotte per scovare il tenente e schiacciarlo disse tra sé.
Hector camminava su e giù nervosamente per la stretta cabina di controllo dello studio tri-di. Tecnici e direttori se ne stavano chini sopra monitor e dispositivi elettronici e, dietro a loro, nella penombra della cabina illuminata malamente, c’era una folla di spettatori che Hector urtava di continuo.
Oltre la parete a vetri della cabina, vi era lo studio ben illuminato dove Leoh sedeva in compagnia di una dozzina di giornalisti importanti e di filosofi politici di Acquatainia.
Il vecchio aveva l’aria stanca, ma compiaciuta. Lo spettacolo era cominciato proiettando la registrazione del duello con Odal. Poi i membri della deputazione avevano cominciato a porgli domande sull’incontro, sulla macchina stessa, sulla sua carriera scientifica e sulla sua vita in genere.
Il tenente girò lo sguardo dallo studio verso il pubblico di spettatori raccolti nella penombra della cabina di controllo. Geri era ancora lì, nell’angolo più lontano, schiacciata tra un vecchio uomo politico e una signora molto vistosa. Era ancora imbronciata, e Hector voltò la faccia, prima che la ragazza si accorgesse che la stava guardando.
— Sembra ormai certo — diceva uno dei dotti personaggi politici nello studio — che Kanus non è più in grado di spaventarci con la duellomacchina. E, senza la paura, Kanus non è pericoloso neanche la metà di quanto si credeva.
— Non sono d’accordo — rispose Leoh, spostando la sua mole nella poltrona apparentemente fragile. — Kerak ha fatto grandi passi nell’isolare Acquatainia diplomaticamente…
— Ma noi non siamo mai dipesi dai nostri vicini per difenderci — ribatté il corrispondente di un giornale. — I nostri cosiddetti alleati, più che un aiuto erano una pompa che aspirava le nostre ricchezze.
— Ma ora Kerak possiede la base industriale di Szarno e avamposti che fiancheggiano la nuova linea di difesa del primo ministro Martine.
— Kerak non oserebbe mai attaccarci e, se anche lo facesse, lo sconfiggeremmo come la prima volta.
— Ma un’alleanza con la Federazione…
— Non ne abbiamo bisogno. Kanus è una tigre di carta, datemi retta. Bluff, trucchi con la duellomacchina, ma nessuna potenza reale. Probabilmente verrà deposto dalla sua stessa gente, tra un anno o due.
Qualcosa fece alzare gli occhi a Hector dal semicerchio di retori sapienti e attrasse il suo sguardo in direzione del gruppo di tecnici che lavoravano alle telecamere e alle luci laser nella pozza d’ombra in fondo allo studio, dove si scorgeva la figura eretta di un uomo alto e snello. Il tenente non poté vederne la faccia, né l’abito, né il colore dei capelli. Notò soltanto il profilo, che ricordava la sagoma di un coltello e che emanava un’aura di pericolo: era Odal.
Senza pensarci due volte, Hector si fece largo tra la gente raccolta nella cabina e si avviò alla porta di questa. Nella fretta, pestò molti piedi dei vicini e infilò i gomiti nella schiena e nella testa dei tecnici, sollevando un coro di brontolii e di proteste. Passò davanti a Geri, che si tirò da parte ma non gli disse niente, né lo guardò dritto negli occhi.
La porta della cabina si apriva in una piccola anticamera con altre due porte: una dava nel corridoio esterno, l’altra nello studio. Una guardia in uniforme stava davanti a quest’ultima.
— Spiacente, signore, ma non si può passare durante la proiezione.
— Ma ho visto qualcuno entrare in fondo allo studio…
La guardia strinse le spalle. — Sarà un tecnico. Non può entrare nessuno.
Hector, allora, uscì nel corridoio esterno che, secondo le sue previsioni, doveva girare intorno allo studio. Lo percorse cautamente e vide un’altra porta, con una luce rossa ammiccante in cima e una targhetta con la scritta STUDIO C. Hector la spalancò. Dentro, in mezzo a un cerchio di luci e di telecamere, un uomo e una donna erano avvinti in un abbraccio appassionato.