Finalmente Odal vedeva il quadro chiaramente. Lo fareste assassinare.
E come?
Da un ufficiale dell’esercito caduto in disgrazia, che abbia buone ragioni per odiarlo.
Voi ne avete dei buoni motivi! sottolineò il ministro.
Forse.
Forse? Come potrebbe essere altrimenti?
Odal scosse la testa. Non ho mai preso in considerazione il problema. Lui è il Duce. Io non l’ho mai odiato né amato, ma ho semplicemente ubbidito ai suoi ordini.
Il dovere innanzi tutto replicò il pensiero di Romis. Parlate come un membro dell’aristocrazia.
Come siete voi. Eppure desiderate assassinare il Duce.
Sì! Perché un membro dell’aristocrazia antepone la fedeltà per i Mondi Kerak all’ubbidienza a questo pazzo, a questo usurpatore del potere che ci distruggerà tutti, nobili e popolani, alla stessa maniera!
Io sono un figlio del popolo replicò Odal, con fermezza. Forse non abbastanza preparato per decidere quale sia il mio dovere. Certamente, ora, non ho possibilità di scelta.
Romis si ricompose. Ascoltatemi. Se acconsentite ad unirvi a noi, potremo aiutarvi a fuggire da questi esperimenti bestiali. Come vedete, alcuni dei principali collaboratori di Kor sono con noi, e anche qualche gruppo dell’esercito e della flotta spaziale. Se ci aiuterete, potrete essere ancora un eroe di Kerak.
Se riesco a uccidere Kanus e a sopravvivere pensò Odal, tra sé.E se non verrò assassinato a mia volta dai vostri amici.
Ma a Romis domandò: E se non accettassi di unirmi a voi?
Il ministro non rispose.
Capisco disse Odal. Ora so troppe cose perché mi si possa permettere di vivere. Sfortunatamente la posta è troppo alta per lasciare ai sentimenti personali di prendere il sopravvento. Se non acconsentirete ad aiutarci prima di lasciare la duellomacchina, il meditec e il sergente si occuperanno di voi. Hanno degli orni da eseguire.
Mi uccideranno disse Odal crudamente e daranno a intendere che ho cercato di fuggire. Sì. Perdonatemi la brutalità, ma questa è l’alternativa: unirvi a noi o morire.
4
Mentre Odal prendeva la sua decisione nel buio della mezzanotte di Kerak, nella capitale di Acquatainia era il tramonto.
Hector volava in larghi cerchi sopra la città, in un aeromobile preso a nolo, e che da molto tempo sarebbe stato pronto per il mucchio delle immondizie. Teneva gli occhi fissi sul pannello di comando davanti a sé, e se ne stava seduto, coi nervi tesi, al posto del. pilota. La cabina dei passeggeri era vuota.
Ogni tanto si ritrovava sopra uno dei quartieri cittadini dove il traffico aereo era più intenso, ma ignorava gli altri aeromobili e teneva il pilota automatico inserito sempre sulla stessa rotta, incurante dei pendolari che se ne tornavano a casa e gli lanciavano imprecazioni via radio, compiendo vere e proprie acrobazie per evitare il suo veicolo. Hector teneva spenta la sua radio, e ogni cellula del suo corpo era concentrata sullo schermo televisivo.
I dispositivi d’esplorazione erano puntati sulla casa di Geri Dulaq, alla periferia della città. Per quanto riguardava il tenente, non esisteva altro. I veicoli sfrecciavano sibilando presso la cabina chiusa e i piloti dalla faccia congestionata agitavano i pugni nella sua direzione, ma lui neanche h vedeva. L’aria entrava sibilando in quello che avrebbe dovuto essere un abitacolo sigillato. L’aeromobile gemeva e rantolava invece di ronzare e innalzarsi, ma lui non ci faceva caso.
Eccola là! Quando la vide attraversare il giardino attiguo alla casa, sentì come una scossa elettrica percorrerlo tutto.
Per un attimo si domandò se avrebbe avuto abbastanza coraggio, ma la sua mano aveva già spostato la leva, e l’aeromobile, rabbrividendo, aveva iniziato una discesa lamentosa.
Il sole rossastro di Acquatainia brillava dritto negli occhi di Hector, attraverso il tettuccio fotocromico che avrebbe dovuto schermare la luce. Socchiudendo gli occhi, il tenente riusciva a malapena a distinguere la massa minacciosa dell’edificio che gli veniva incontro. Si aggrappò ai comandi, aprì completamente le alette frenanti, si preparò all’atterraggio e lanciò il veicolo, in un turbine di polvere, proprio in mezzo all’aiuola di Geri.
— Tu!!! — esclamò lei, mentre il tenente spalancava il tettuccio.
Poi fece dietro-front e si rifugiò in casa. Hector fece l’atto di correrle dietro, ma le cinghie che lo fissavano al sedile non glielo permisero.
Quando si fu liberato dall’imbracatura e saltò a terra, inciampando, lei era già scomparsa. Ma la porta era ancora aperta. Il tenente se ne accorse e si tuffò a pesce.
Un servitore piuttosto anziano comparve sul vialetto che portava all’ingresso. Hector lo evitò, e si gettò verso la porta che ora, però, stava girando sui cardini: era proprio sulla soglia, quando il battente lo imprigionò contro lo stipite.
Dietro l’ingresso si udiva l’ansare di qualcuno che tentava di chiudere completamente, benché un braccio e una gamba del tenente fossero ormai dall’altra parte. Hector spinse con tutte le sue forze, ma inutilmente. Non può essere lei pensò. Puntandosi come meglio poteva con l’unica gamba, tentò ancora. La porta cedette lentamente, poi, all’improvviso, si spalancò: Hector perse l’equilibrio e finì addosso a un servo robusto che spingeva dall’altra parte. Tutti e due rotolarono sul pavimento di plastilegno dell’entrata.
Il tenente si alzò carponi e intravide Geri in cima all’ampio scalone curvo che dominava la sala principale della casa. Poi il servo gli piombò addosso e cercò di immobilizzarlo, ma lui riuscì a liberarsi dalla stretta e fu di nuovo in piedi.
— Non voglio farvi del male! — disse con voce rotta, tenendo però i pugni in una posizione minacciosa. In quell’istante altre due braccia lo afferrarono alle spalle, senza però molta forza. Si trattava del vecchio servitore. Hector se lo scrollò di dosso e fece qualche altro passo verso l’interno della casa, gli occhi fissi sul tipo robusto che ora se ne stava accasciato sul pavimento, guardando Geri con aria interrogativa.
Basta che lei faccia un cenno pensò Hector, e quelli mi saltano addosso tutti e due.
— Ti avevo detto che non volevo più rivederti! — gli gridò la ragazza. — Mai più!
— Io devo parlarti — gridò lui di rimando. — Bastano pochi minuti, ma… da soli.
— Io non… ti sanguina il naso.
Hector si passò un dito sul labbro superiore e lo ritirò sporco di un rosso appiccicoso.
— Oh, la porta! Devo averci urtato contro.
Geri scese i gradini, esitante, poi inspirò profondamente e arrivò fino nell’ingresso.
— Va bene — disse con calma ai servi. — Potete andare.
Il tipo corpulento sembrò esitare. Il vecchio azzardò un — Ma se…
— Non c’è pericolo — disse lei con fermezza. — Potete restare nella stanza accanto, se credete. Il tenente si tratterrà solo cinque minuti. Non di più — aggiunse, rivolta a Hector.
I due si ritirarono controvoglia.
— Hai rovinato i miei fiori — gli disse Geri, ma dolcemente, mentre le labbra si piegavano in un piccolo sorriso. — E il tuo naso sanguina ancora.
Hector si frugò in tasca. Lei gli porse un fazzoletto.
— Ecco qua. Ora ripulisciti e vattene.
— Non prima di averti detto quello che ho da dirti — rispose lui con voce nasale, premendosi il fazzoletto contro le narici.