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— Capisco — disse Leoh. — Ehm, Hector è il nome o il cognome?

— Tutt’e due, signore.

Dovevo immaginarmelo! pensò lo scienziato. Poi, a voce alta, soggiunse: — Bene, sottotenente, raggiungiamo il traghetto prima che parta senza di noi.

Presero la strada scorrevole. Mezzo secondo dopo Hector ne scese con un balzo e si precipitò di nuovo verso l’ufficio comunicazioni per recuperare la borsa da viaggio. Poi si gettò ancora all’inseguimento di Leoh, urtando almeno sette cittadini allibiti e rischiando di spezzarsi tutt’e le gambe mentre balzava sulla strada mobile. Atterrò sul ventre, lungo disteso tra due sentieri scorrevoli che si muovevano a diversa velocità, e solo, con l’aiuto di una vecchia signora riuscì a rimettersi in piedi e a tenersi ritto accanto al professore.

— Mi spiace di aver causato tanto trambusto, signore.

— Niente, niente. Non ci ho fatto caso. Vi siete fatto male?

— No, ehm… non credo. Sono un po’ confuso. — Rimasero sulla strada scorrevole, uno accanto all’altro, attraversando in silenzio la stazione congestionata e dirigendosi verso il luogo dove i traghetti se ne stavano ormeggiati. Salirono su una delle navi e si sedettero.

— Da quanto siete nella Guardia Spaziale, sottotenente?

— Da sei settimane, signore. Tre le ho passate a bordo della nave stellare che mi portava alla base di Alfa VI Perseo, una alla base planetaria di laggiù e due a bordo dell’incrociatore… l’SW4-J188. L’equipaggio lo chiamava Vecchio Secchio di Lardo per via del capitano, credo. Oh, ci sono volute sei settimane perché mi venisse assegnato un incarico. E pensare che ho fatto quattro anni di Accademia.

— Ci avete messo quattro anni per terminare l’Accademia?

— È il tempo regolamentare, signore.

— Sì, lo so.

La nave si staccò dagli ormeggi. Un attimo in caduta libera, poi i motori si accesero e la mancanza di peso sparì dalla cabina dei passeggeri.

— Dite un po’, sottotenente, come mai vi hanno scelto per questa missione?

— È quello che vorrei sapere anch’io, signore — disse Hector, assumendo un’espressione preoccupata. — Stavo preparando un programma per l’ufficiale di rotta, sull’incrociatore. Quella è un po’ la mia specialità. Riesco a preparare programmi per calcolatori abbastanza bene, tutto mentalmente. La matematica era il mio cavallo di battaglia, all’Accademia.

— Interessante.

— Sì. Be’, comunque sto lavorando a quel programma quando il capitano in persona sale sul ponte e comincia a darmi vigorose strette di mano, dicendomi che sarò mandato in missione speciale ad Acquatainia per ordine espresso, niente po’ po’ di meno, del Comandante in Capo. Aveva l’aria raggiante. Il capitano, voglio dire.

— Probabilmente era contento che vi assegnassero un compito tanto fuori dell’ordinario — disse Leoh con molto tatto.

— Io non ne sono proprio sicuro — rispose l’altro con franchezza. — Credo che lui mi considerasse… be’, una specie di problema difficile da risolvere. Mi cambiava mansioni praticamente ogni giorno, a bordo.

— Bene — disse Leoh, cambiando argomento — che cosa ne sapete di psiconica?

— Di che cosa, signore???

— Ehm… elettroencefalografia?

Hector aveva l’aria di non saperne niente.

— Di psicologia, forse? — suggerì Leoh. — Fisiologia? Molectronica del computer?

— Sono discretamente bravo in matematica.

— Sì, lo so. Avete, per caso, ricevuto una preparazione qualsiasi in relazioni diplomatiche?

— All’Accademia della Guardia Spaziale? Signornò.

Il professore si passò le dita fra i capelli radi. — E allora perché diavolo la Guardia Spaziale vi ha scelto per questo lavoro? Sottotenente, confesso di non capire bene il meccanismo delle organizzazioni militari.

Hector scosse la testa con tristezza. — Non lo capisco neanch’io, signore.

7

La settimana fu di una lentezza snervante per Leoh, ugualmente diviso fra il noioso controllo dei vari elementi della duellomacchina e la fatica mentale di inventare i trucchi più svariati per tenere Hector il più possibile lontano dall’apparecchio.

Hector, certo, era pieno di buona volontà e il professore, a dire il vero, era a corto di gente che sapesse sbrogliare complicati problemi matematici. Ma era anche decisamente troppo goffo, sventato, chiacchierone. E fischiettava tutto il giorno. Impossibile fare un lavoro costruttivo con lui attorno!

Forse lo giudichi troppo severamente si disse Leoh. Forse la delusione che ti ha dato la macchina ha scosso un po’ la tua obiettività.

Il professore sedeva nell’ufficio che gli Acquatainiani gli avevano riservato nel retro dell’ex aula universitaria che ora ospitava la duellomacchina e poteva scorgere la sua creatura attraverso la porta socchiusa del suo studio. Quest’ultimo faceva parte di una serie di uffici che prima servivano al personale fisso addetto alla macchina. Ora tutti avevano abbandonato al completo l’edificio per deferenza nei riguardi di Leoh, o forse per gelosia. Il governo d’Acquatainia aveva trasformato i cubicoli in alloggi per il professore e il sottotenente.

Leoh si abbandonò sulla poltrona dietro la sua scrivania lanciando un’occhiata al fascio di carte su cui erano registrati i dati relativi al funzionamento della macchina, durante le sue ultime prestazioni. Quel giorno, di buon mattino, aveva preso gli encefalogrammi di alcuni casi clinici di catatonia e li aveva inseriti nei circuiti d’ingresso della macchina. Questa li aveva rigettati immediatamente, rifiutandosi di elaborarne i dati attraverso gli amplificatori e i circuiti di associazione. In altre parole aveva riconosciuto nei tracciati encefalografici qualcosa di nocivo agli esseri umani.

E allora, cosa è accaduto a Dulaq? si domandò Leoh per la millesima volta. Non poteva essere stato un errore ella macchina. Dalla mente di Odal doveva essere partito qualcosa che aveva sopraffatto Dulaq.

Sopraffatto? si chiese Leoh. Questo è un termine terribilmente non scientifico!

Ma il suo monologo fu interrotto dal rumore della porta principale del salone e dal fischiettare stonato di Hector che riecheggiò sotto il soffitto a volta. Leoh sospirò e ricacciò in fondo alla mente i pensieri che lo preoccupavano. Cercare di seguire un filo logico in presenza di Hector era un’impresa disperata.

— Siete in casa, professore? — gridò il giovanotto.

Hector si chinò per passare attraverso la porta aperta e sprofondò nel divano.

— Tutto bene, signore?

Leoh si strinse nelle spalle. — Veramente, non direi. Non riesco a trovare alcun guasto nella macchina. E non riesco neppure a farla funzionare male.

— Be’, questa è una buona notizia, no? — osservò l’altro allegramente.

— In un certo senso — convenne Leoh, sentendosi conquistare dall’ottimismo illimitato e gratuito del giovanotto. — Ma, vedete, questo vuol dire che i sicari di Kanus possono farle fare quello che non riesce a me.

Hector considerò il problema. — Ehm… Sì, forse avete ragione.

— Avete riportato la ragazza alla sua nave senza incidenti?

— ’Gnorsì — replicò Hector, scuotendo la testa. — Sta proprio tornando all’ufficio comunicazioni della stazione spaziale. Mi ha detto di ringraziarvi perché si è divertita molto.

— Bene. Siete stato gentile ad accompagnarla in giro per il campus. Così me l’avete tenuta fuori dei piedi.

— Oh, è stato un vero piacere portarla a spasso — disse l’altro ridendo. — E poi… Era un mandar fuori dai piedi anche me, no?