Frank Herbert
Dune
Introduzione
Entra nel mondo di Dune
(Discorso tenuto da Frank Herbert alla XXII Convention Mondiale di Fantascienza, Los Angeles 1964.)
Mi è stato chiesto di tenere un discorso su un tema preciso per via del mio ciclo di romanzi ambientati sul pianeta Dune. Confesso che, nell’affrontarlo, provo una certa apprensione. Altri mondi sono stati costruiti, migliori del mio… Però, visto che in numerose occasioni mi hanno già gratificato dell’appellativo di «sacrilego», posso benissimo aggiungere anche la sfida agli dèi all’elenco delle mie colpe.
Ecco dunque come è nato Dune.
(A questo punto desidero avvertire gli ascoltatori: sarà un discorso con molte divagazioni. Ma neppure la costruzione di un mondo è un processo lineare: s’incontrano diramazioni affascinanti, ed è difficile non cedere al desiderio di esplorarle… specialmente per uno come me, che non riesce ad aprire il dizionario senza perdere ore intere a leggerlo!)
All’inizio c’è stata l’idea.
L’idea specifica di Dune nacque una decina d’anni prima che scrivessi i romanzi, in un periodo in cui preparavo un articolo per un quotidiano. L’articolo mi aveva condotto a Florence, nell’Oregon: una cittadina costiera che aveva dei guai con il movimento delle dune di sabbia. Poiché è sede di un progetto coordinato, statale e federale, per controllare il movimento delle dune, Florence è una specie di Mecca per chiunque, in ogni parte del mondo, abbia lo stesso tipo di problemi. (E non lo dico per far piacere alla locale Camera di Commercio, ma perché è la verità: delegazioni di un mucchio di Paesi — Israele, Cile, Italia, Spagna, Algeria, Turchia, Iran, India, Arabia Saudita, Messico — si sono recate a Florence per studiare i metodi con cui si può controllare il movimento delle dune.)
A Florence hanno risolto parzialmente l’intoppo almeno per quanto riguarda il controllo del movimento della sabbia: seminano erba per fermare le dune, e hanno sviluppato varie tecniche come quella di spargere sementi sulla parte esposta al vento, per ancorarle, e dalla parte opposta per farle crescere in altezza, in modo che formino una barriera contro le correnti d’aria.
Nel preparare l’articolo scoprii che tale problema mi aveva affascinato. Proprio così: a volte, certi fatti bizzarri hanno il potere di attirare l’immaginazione. Per le dune, mi nacque una vera passione. Cominciai a studiare i popoli che abitano nelle regioni aride, perché erano le regioni in cui s’incontrava la maggior parte delle dune. Una delle mie solite divagazioni, insomma; un modo come un altro di leggere il dizionario.
Poi, lentamente, lo scrittore che è in me si risvegliò, e si accorse che questi argomenti potevano offrire lo spunto per un romanzo (ciò si verificò circa due anni dopo). Successivamente, pensai che forse non c’erano soltanto gli elementi per una storia, ma anche per costruire un mondo immaginario: un mondo riconoscibile da parte di chiunque fosse vissuto per qualche tempo in una regione arida. Un pianeta che soffre per la mancanza d’acqua. Un popolo spinto alla violenza da questo bisogno. Una cultura, una civiltà che cerca di superare una simile avversità.
Ora, quando il discorso cade su Dune, vedo che molta gente nota il suo ecosistema. Dal mio punto di vista, un pianeta è una specie di nave spaziale: una biosfera, che viaggia a velocità spaventosa tra un’immensità di spazio inabitabile. E il fine era quello di raccontare una storia: per un romanzo, la cosa più importante sono gli ospiti dell’astronave.
Gli abitanti, dunque. Come vivono su un mondo così arido?
Quando si crea un pianeta, occorre sempre impiegare una pista di lancio: qualcosa che il lettore possa riconoscere. Per Dune, come ho detto, questa pista di lancio è costituita dalle popolazioni che qui, sulla Terra, vivono nelle regioni torride. Su Dune, però, l’aridità è superiore, ed ecco che le cose cominciano a complicarsi. Fate uno sforzo d’immaginazione, fino a considerare la Terra come una creatura vivente: non vi occorrerà molto per pensare all’umanità come a una malattia del nostro pianeta. Su buona parte della Terra, la presenza dell’uomo contrasta con quella di un sano ecosistema, capace di mantenersi indefinitamente.
C’è un tipo di regioni, però, in cui questo «uomo-virus» è meno nocivo e poco intacca la biosfera che lo circonda: le regioni aride. (E notate come finora non abbia ancora pronunciato la parola «deserto». Deserto ha un significato preciso, mentre l’aridità ha tutta una serie di gradi. Dune è arido. Alcuni deserti della Terra, al confronto, sono umidi.) Nelle regioni desertiche della Terra, l’uomo-virus adotta certi provvedimenti per conservare tutta quella catena di organismi viventi — piante, animali, insetti — che rendono possibile la vita. Laggiù l’agricoltura conserva ancora alcune delle sue antiche implicazioni religiose: il matrimonio con la terra, e la necessità di renderla fertile. Laggiù vive ancora una vecchia tradizione: quella di bonificare la terra, di entrare nel ritmo naturale delle cose, di trasformare l’uomo in una componente vitale dell’ecosistema.
Nelle nostre regioni aride non sempre è stato così, né è sempre così oggigiorno. Ma proprio tale tipo di habitat dimostra che esiste un solo tipo di intervento efficace sull’ambiente. Infatti, non è detto che una politica conservatrice debba essere in contrasto con la sopravvivenza. Le popolazioni del deserto, guardando al passato, possono imparare dagli errori commessi: le testimonianze di tali mancanze sono ancora vive intorno a loro.
Per esempio, alcune tribù nomadi cominciarono la distruzione dei famosi cedri del Libano. Come risultato, l’humus di quella terra, un tempo fertile, è oggi ridotto a uno strato sottile. La terra è meno ricca, produce meno di quanto non facesse nelle epoche bibliche: forse c’è stato un leggero cambiamento nelle precipitazioni atmosferiche, ma questo non basta a spiegare la differenza tra allora e oggi. Modificazioni delle linee di displuvio in vaste regioni della Cina sono direttamente all’origine della secolare povertà di quelle zone (ci sono stati altri fattori, certo, ma non intendo parlare di cause ed effetti totali: mi limito a ricostruire parti di concatenazioni causali immediate… procedimento molto rischioso, quando si parla della Cina).
Una caratteristica di questi luoghi aridi, dunque, è l’intima associazione tra l’uomo e la terra. In un certo senso, è la caratteristica di tutte le regioni povere, ma bisogna distinguere tra intima associazione e sfruttamento. I risicoltori italiani sfruttano la terra. I coltivatori di grano delle pianure americane sfruttano la terra. Alcuni risicoltori giapponesi sfruttano la terra. Tutte queste persone hanno in comune una caratteristica: non si preoccupano d’inserire la loro attività agricola nell’ecosistema della regione in cui vivono. Un numero sempre crescente di risicoltori giapponesi fa ricorso a fertilizzanti chimici. Quelli italiani hanno già imboccato da tempo la stessa strada. Gli agricoltori americani, un anno, hanno perfino perso il raccolto per essersene fidati troppo. Alcune regioni dello Stato di Washington e del Sud Dakota devono oggi affrontare il problema dell’esaurimento del suolo. I fertilizzanti chimici tappano parte dei buchi… ma se ne formano altri. Sono regioni in cui non si pareggia il bilancio tra quanto si prende e quanto si restituisce.
Facciamo un confronto tra questi luoghi e altri in cui si coltivano cereali: Cina meridionale, Corea, Giappone sudoccidentale, India, Turchia (grano o riso, la differenza non conta: in entrambi i casi occorrono campi di grandi dimensioni e si seminano piante erbacee).