Paul alzò lo sguardo su quell’uomo brizzolato che si era fermato all’angolo della tavola. Gli occhi di Hawat risaltavano come due centri di attenzione nella sua faccia bruna e segnata.
«Ti ho sentito venire per il corridoio» disse Paul. «E inoltre ti ho sentito aprire la porta.»
«Qualcuno potrebbe imitare quei rumori.»
«Saprei comunque distinguere la differenza.»
E ne sarebbe anche capace, pensò Hawat. Quella strega di sua madre gli dà certamente tutto l’addestramento. Chissà cosa ne pensa, quella sua famosa scuola? Forse è proprio per questo che hanno mandato qui la vecchia Veggente… per rimettere in riga la nostra cara Lady Jessica.
Hawat tirò a sé una sedia, sul lato opposto a Paul, e si sedette col viso verso la porta. Lo fece a bella posta, si piegò all’indietro e si mise a studiare la stanza. E subito quel luogo lo colpì in modo strano: era diventato del tutto estraneo, ora che la maggior parte del materiale pesante era già partita per Arrakis. Restava soltanto un tavolo da addestramento, uno specchio da scherma con i suoi cristalli prismatici, inerti, il bersaglio rattoppato e ricucito, lì accanto, con l’aspetto di un vecchio fantaccino storpiato e consunto dalle guerre.
Come me, pensò Hawat.
«Thufir, a cosa stai pensando?» gli chiese Paul.
Hawat guardò il ragazzo. «Stavo pensando che tutti saremo lontani da qui, molto presto, e che probabilmente non vedremo mai più questo posto.»
«E questo ti rattrista?»
«Rattristarmi? Sciocchezze. Lasciare degli amici sarebbe triste, per me. Ma un posto è soltanto un posto!» Gettò uno sguardo alle carte sul tavolo. «E Arrakis è soltanto un altro posto.»
«Ti ha mandato mio padre, per saggiare il mio umore?»
Hawat si accigliò: il ragazzo sapeva valutarlo così acutamente… Annuì. «Tu pensi che sarebbe stato più simpatico se fosse venuto lui stesso, quassù, ma sai quant’è occupato. Verrà più tardi.»
«Stavo studiando le tempeste di Arrakis.»
«Le tempeste. Capisco.»
«Sembra che siano qualcosa di brutto.»
«’Brutto’ è una parola troppo prudente. Queste tempeste si scatenano lungo sei o settemila chilometri di pianura, e si alimentano di qualsiasi cosa possa fornire ad esse un’ulteriore spinta: accelerazione di Coriolis, altre tempeste, una qualsiasi sorgente di energia, anche minima. Soffiano a settecento chilometri all’ora, trascinando con sé ogni cosa mobile che incontrino sul loro cammino: sabbia, polvere… qualsiasi cosa. Ti strappano la carne dalle ossa, e ti scavano le ossa in schegge sottili.»
«È perché non hanno il controllo atmosferico?»
«Arrakis presenta problemi particolari; i costi eccezionalmente alti, la manutenzione proibitiva e tutto il resto. La Gilda chiede un prezzo spaventoso per il controllo a mezzo satelliti, e la Casa di tuo padre non è tra quelle più grandi e più ricche, ragazzo. Lo sai bene.»
«Hai mai visto i Fremen?»
L’attenzione del ragazzo guizza un po’ dappertutto, oggi, pensò Hawat.
«Non ne ho visto molto, ma li ho visti» disse. «Non c’è molto che li distingua dalle genti del graben e del sink. Indossano tutti lunghe vesti fluttuanti. E puzzano come il demonio, in qualsiasi luogo chiuso. Questo dipende appunto dagli abiti che indossano, le chiamano ’tute distillanti’, che recuperano l’acqua del corpo.»
Paul deglutì, improvvisamente conscio dell’umidità della sua bocca, improvvisamente conscio di un sogno in cui era assetato. Il fatto che quel popolo avesse bisogno di acqua al punto da dover rimettere in ciclo l’acqua del proprio corpo lo afferrò alla gola con un senso di desolazione. «L’acqua è preziosa, laggiù» disse.
Hawat annuì, pensando: Forse ce l’ho fatta, forse sono riuscito a fargli capire quanto ci sia ostile quel pianeta, e quanto sia importante per noi saperlo. Sarebbe pazzesco andare laggiù senza averlo ben chiaro nella mente.
Paul alzò gli occhi al tetto trasparente, conscio che era cominciato a piovere. Vide l’acqua spargersi sulla grigia distesa di metavetro. «Acqua» disse.
«Imparerai a preoccuparti moltissimo dell’acqua» insistette Hawat. «Come figlio del Duca, essa non ti mancherà mai, ma dovunque, intorno a te, vedrai quanto sia grande questa ossessione della sete.»
Paul s’inumidì le labbra, ripensando al giorno in cui, una settimana prima, aveva sostenuto l’ordalia con la Reverenda Madre. Anche lei gli aveva detto qualcosa sull’ossessione della morte per sete.
«Imparerai a conoscere le piane dei morti» gli aveva detto, «il più vuoto deserto, le terre aride in cui niente vive, eccettuati la spezia e il verme delle sabbie. Ti sporcherai di nero le palpebre per ridurre il barbaglio del sole. Un rifugio sarà soltanto un buco al riparo dal vento e nascosto alla vista. Cavalcherai il deserto con i tuoi piedi, senza un ornitottero, un qualsiasi veicolo di terra o un animale sellato.»
E Paul era stato colpito più dal suo tono, cantilenante e ondeggiante, che dalle sue parole.
«Quando vivrai su Arrakis» gli aveva detto, «khala! la terra sarà vuota. Le lune saranno le tue amiche, il sole il tuo nemico.»
Paul, a questo punto, aveva sentito sua madre allontanarsi dalla porta dov’era di guardia, e avvicinarsi a lui. Guardando la Reverenda Madre, lei aveva chiesto: «Non vedete alcuna speranza, Vostra Reverenza?»
«Per il padre, no.» La vecchia aveva fatto un gesto con la mano, imponendo a Jessica il silenzio, e aveva guardato Paul. «Incidi questo nella tua memoria, ragazzo: un mondo si sostiene su quattro cose…» (aveva alzato quattro dita dalle nocche nodose) «…l’erudizione del saggio, la giustizia del grande, le preghiere del giusto, e il valore del coraggioso. Ma tutto questo è nulla…» (Aveva stretto le dita a pugno) «…senza un condottiero che conosca l’arte del governare. Fa di essa la tua scienza!»
Era trascorsa una settimana dall’incontro con la Reverenda Madre, e soltanto ora le sue parole acquistavano pieno significato. Ora, seduto nella palestra con Thufir Hawat, Paul provò un’acuta fitta di paura. Guardò verso il Mentat, che lo fissava perplesso e accigliato.
«A cosa pensi?» gli chiese Hawat.
«Hai visto anche tu la Reverenda Madre?»
«La strega Veridica dell’Impero?» Hawat sbatté più volte le palpebre per l’interesse. «Sì, l’ho incontrata.»
«La Reverenda Madre…» Paul esitò, e scoprì che non poteva descrivere ad Hawat l’ordalia subita. C’erano inibizioni troppo profonde.
«Sì. Che cosa ha fatto?»
Paul respirò profondamente due volte. «Ha detto una cosa» chiuse gli occhi, richiamando le parole alla memoria, e, quando parlò, la sua voce, inconsciamente, acquistò in parte la cadenza della vecchia: «Tu, Paul Atreides, discendente di re, figlio di un Duca, devi imparare a governare. Questo, nessuno dei tuoi antenati lo ha mai imparato’». Paul riaprì gli occhi, e disse: «Le sue parole mi fecero infuriare, e ribattei che mio padre governa un intero pianeta. E lei insistette: ’Lo sta perdendo.’ E io ribattei che mio padre stava per avere un pianeta ancora più ricco. E lei: ’Perderà anche quello.’ Io volevo correre ad avvertire mio padre, ma lei mi disse che era già stato avvertito… da te, da mia madre, da molta gente».
«Assolutamente vero» mormorò Hawat.
«Allora, perché ci andiamo?» chiese Paul.
«Perché l’Imperatore l’ha ordinato. E perché, nonostante quello che dice quella vecchia spia, c’è ancora speranza. Che altro è scaturito da quell’antica fonte di saggezza?»
Paul fissò la sua mano destra, stretta a pugno sotto la tavola. Lentamente, ordinò ai muscoli di rilassarsi. La vecchia ha una sorta di potere su di me, pensò. Ma come?