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Il più alto dei due, tuttavia, teneva una mano sull’occhio sinistro. Mentre l’Imperatore lo fissava, qualcuno urtò il braccio dell’uomo della Gilda: la mano si mosse e l’occhio fu rivelato. L’uomo aveva perduto una delle lenti a contatto che mascheravano il vero occhio, e ora questo occhio lo fissava… un occhio d’un azzurro così profondo da sembrare quasi nero.

Il più piccolo dei due si fece largo a gomitate e disse all’Imperatore: «Non sappiamo come andrà a finire». E il suo compagno più alto, nuovamente con la mano sull’occhio, replicò con voce gelida: «Ma neppure Muad’Dib lo sa».

Queste parole riscossero l’Imperatore dal suo stupore. A stento si trattenne dall’esprimere tutto il suo disprezzo, poiché non c’era alcun bisogno della particolare messa a fuoco interiore dei navigatori della Gilda per indovinare l’immediato futuro. Forse questi due uomini dipendevano talmente dalla loro facoltà da aver perduto completamente l’uso degli occhi e della ragione? si chiese.

«Reverenda Madre» disse. «Dobbiamo mettere a punto un piano.»

La vecchia ricacciò il cappuccio sulla schiena e affrontò il suo sguardo. In quell’istante, una totale comprensione si stabilì tra loro. Sapevano ambedue che restava soltanto un’arma: il tradimento.

«Il Conte Fenring» disse la Reverenda Madre.

L’Imperatore Padiscià annuì, e fece un gesto a uno dei suoi aiutanti perché eseguisse quell’ordine.

Era guerriero e mistico, feroce e santo, astuto come una volpe e innocente, cavalleresco e spietato, meno di un dio e più di un uomo. Non si può misurar Muad’Dib con gli standard ordinari Nel momento del suo trionfo, indovinò la morte che gli veniva preparata e tuttavia accettò il tradimento. Possiamo dire che lo fece per un senso di giustizia? Quale giustizia, allora? Perché, ricordate che stiamo parlando, ora, del Muad’Dib che rivestì il suo tamburo con la pelle del nemico, e che negò tutte le convenzioni, del suo passato ducale con un semplice gesto della mano, dichiarando semplicemente: «Io sono lo Kwisatz Haderach. Questa è una ragione più che sufficiente».

dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan

La sera della vittoria, Paul Muad’Dib fu scortato verso la residenza del Governatore, l’antica dimora che gli Atreides avevano occupato quand’erano giunti la prima volta su Dune. L’edificio era tale quale Rabban l’aveva restaurato. Era uscito intatto dalla battaglia, anche se la popolazione della città l’aveva saccheggiato. Alcuni dei mobili della Grande Sala erano stati rovesciati e fracassati.

Paul varcò a grandi passi l’ingresso principale, seguito da Gurney Halleck e Stilgar. La scorta si disperse nella Grande Sala e liberò uno spazio per Muad’Dib. Un gruppo cominciò a controllare che nessuna trappola fosse stata nascosta in quel luogo.

«Ricordo il giorno in cui siamo venuti qui per la prima volta con tuo padre» disse Gurney. Alzò gli occhi sui massicci pilastri e sulle alte finestre a feritoia. «Allora questo posto non mi piacque e adesso mi piace ancora meno. Una caverna è molto più sicura.»

«Tu sei un vero Fremen» dichiarò Stilgar, e vide il freddo sorriso che queste parole avevano fatto apparire sulle labbra di Muad’Dib. «Muad’Dib, sei ancora deciso a…»

«Questa dimora è un simbolo» disse Paul. «Rabban è vissuto qui. Occupandola sigillo la mia vittoria agli occhi di tutti. Manda i tuoi uomini in tutto l’edificio. Che non tocchino niente. Che si assicurino soltanto che non sia rimasto un solo Harkonnen, o qualcuno dei loro giocattoli.»

«Come tu comandi» fece Stilgar, e si allontanò a malincuore per obbedire.

Gli operatori radio comparvero nel salone coi loro apparecchi e cominciarono a montarli accanto al grande caminetto. I Fremen che si erano uniti ai Fedaykin superstiti presero posizione intorno alla sala. Si udirono mormoni; occhiate sospettose furono scambiate. Gli Harkonnen erano vissuti troppo a lungo in quel posto perché i Fremen potessero sentirsi a proprio agio.

«Gurney, manda una scorta a prendere mia madre e Chani» disse Paul. «Chani sa già di nostro figlio?»

«Il messaggio è stato inviato, mio Signore.»

«I creatori sono stati ritirati dal bacino?»

«Sì, mio Signore. La tempesta si è quasi calmata.»

«I danni sono gravi?»

«Sul percorso principale della tempesta… il campo di atterraggio e i magazzini della spezia… i danni sono rilevanti» disse Gurney. «Sia per la battaglia che per la tempesta.»

«Niente che il denaro non possa ripagare, suppongo» fece Paul.

«Eccettuate le vite, mio Signore» replicò Gurney, e vi era una sfumatura di rimprovero nella sua voce, come se avesse detto: Quando mai un Atreides si è preoccupato prima delle cose, quand’erano in gioco esseri umani?

Ma Paul riusciva soltanto a concentrarsi sul suo occhio interiore e sulle crepe, per lui ancora visibili, della parete del tempo. E attraverso ogni crepa il jihad infuriava, perdendosi nei corridoi del futuro.

Paul sospirò e attraversò la Grande Sala poiché aveva visto una sedia contro la parete di fronte. Un tempo si trovava nella sala da pranzo e forse era la sedia di suo padre. In quel momento, tuttavia, era soltanto un oggetto sul quale scaricare la sua stanchezza, nascondendola allo sguardo degli uomini. Si sedette, avviluppando il mantello intorno alle gambe e slacciandosi la tuta distillante sul collo.

«L’Imperatore è ancora asserragliato tra i resti della sua nave» disse Gurney.

«Che rimanga lì, per ora» disse Paul. «Hanno già trovato gli Harkonnen?»

«Stanno ancora esaminando i morti.»

«Qual è la risposta delle navi lassù?» Alzò il mento verso il soffitto.

«Nessuna risposta ancora, mio Signore.»

Paul sospirò e si appoggiò allo schienale. Poi aggiunse: «Portami uno dei prigionieri Sardaukar. Dobbiamo inviare un messaggio all’Imperatore. È tempo di discutere le condizioni».

«Sì, mio Signore.»

Gurney si voltò e fece un gesto a uno dei Fedaykin che si mise di guardia accanto a Paul.

«Gurney» bisbigliò Paul. «Dal giorno in cui ci siamo ritrovati, non ti ho mai udito pronunciare una citazione appropriata agli eventi.» Alzò gli occhi e vide Gurney che inghiottiva, e l’improvviso indurirsi della sua mascella.

«Come vuoi, mio Signore» fece Gurney. Si schiarì la gola e disse con voce stridula: «’E la vittoria in quel giorno si cambiò in lutto per tutto il popolo, perché il popolo seppe, in quel giorno, che il re piangeva suo figlio’».

Paul chiuse gli occhi, sforzandosi di scacciare il dolore dalla mente, di aspettare a piangere, come un tempo aveva aspettato a piangere suo padre. Ora dedicò i suoi pensieri alle scoperte che si erano accumulate in quel giorno: i futuri che s’intrecciavano e la presenza di Alia nel suo spirito.

Di tutte le particolarità della visione temporale questa era la più strana. «Ho manipolato il futuro per collocare le mie parole dove tu solo potessi udirle» gli aveva detto Alia. «Neppure tu puoi far questo, fratello mio. È un gioco interessante. E… oh, sì, ho ucciso il nonno, quel vecchio pazzo del Barone. Non ha provato molto dolore.»

Silenzio. La sua percezione temporale gli diceva che Alia si era ritirata da lui.

«Muad’Dib.»

Paul aprì gli occhi e vide davanti a sé il volto nero e barbuto di Stilgar, gli occhi tenebrosi e scintillanti.

«Hai trovato il corpo del Vecchio Barone» disse Paul.

Stilgar sussultò. «Come potevi saperlo?» bisbigliò infine. «Abbiamo appena scoperto il suo cadavere in quell’immenso mucchio di metallo edificato dall’Imperatore.»