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«Non lascerò mai gli schermi. Cercherò di vedere un pilota della Gilda.»

«No. Neppure i loro agenti planetari hanno mai visto un pilota della Gilda. La Gilda è gelosa della propria intimità, come lo è del proprio monopolio. Non far nulla che possa mettere in pericolo i nostri privilegi, Paul.»

«Pensi che si nascondano perché hanno subito delle mutazioni e non hanno più un aspetto… umano

«Chi lo sa?» Il Duca alzò le spalle. «È un mistero che, probabilmente non saremo noi a risolvere. Abbiamo problemi più urgenti, uno dei quali sei tu.»

«Io?»

«Tua madre ha voluto che fossi io a dirtelo, figlio mio. Vedi, tu potresti avere capacità da Mentat.»

Paul fissò il padre, incapace per un attimo di parlare. Poi esclamò: «Un Mentat, io? Ma io…»

«Hawat è d’accordo, figlio. È la verità.»

«Ma io credevo che l’addestramento di un Mentat dovesse cominciare fin dall’infanzia, e che il soggetto non dovesse saperlo, perché questo avrebbe potuto inibire le prime…» s’interruppe: tutti gli ultimi avvenimenti di quei giorni si saldarono all’improvviso in un unico disegno. «Capisco» disse.

«Viene un giorno» continuò suo padre, «in cui il futuro Mentat dev’esserne informato. Non è più possibile fargli subire l’addestramento: lui stesso deve scegliere se continuare o abbandonarlo. Alcuni possono continuare, altri abbandonano: soltanto un Mentat può decidere su se stesso.»

Paul si sfregò il mento. Tutti quegli addestramenti speciali datigli da Hawat e da sua madre (gli esercizi mnemonici, la focalizzazione della coscienza, il controllo muscolare, l’acutizzazione dei sensi, lo studio delle lingue e delle sfumature di voce) tutto ora acquistava per lui un nuovo significato.

«Tu sarai Duca un giorno, figlio mio» disse suo padre. «Un Duca Mentat sarebbe davvero formidabile. Puoi decidere subito, o hai bisogno di tempo?»

Non vi fu esitazione nella risposta. «Continuerò.»

«Davvero formidabile» ripeté il Duca, e Paul gli vide un sorriso d’orgoglio disegnarsi sul volto. Il sorriso lo sbigottì: per un attimo, il volto sottile di suo padre gli era parso un teschio. Paul chiuse gli occhi, e sentì che l’idea di un terribile scopo si risvegliava in lui. Forse, essere un Mentat è un terribile scopo, pensò.

Ma nel medesimo istante in cui formava questo pensiero, la sua nuova comprensione lo negò.

Con Lady Jessica su Arrakis, il Sistema Bene Gesserit d’impiantare leggende tramite la Missionaria Protectiva diede i suoi frutti. Si era già potuta apprezzare la saggezza che aveva spinto a disseminare nell’universo conosciuto un singolo tema profetico a protezione del Bene Gesserit, ma mai si era vista una combinazione così perfetta tra persona e preparativi. Le leggende profetiche avevano attecchito su Arrakis al punto di conservare intatto ogni simbolo originale (la Reverenda Madre, canto e respondu, e la maggior parte del panoplia propheticus Shari-a). Oggi in generale si ammette che le abilità latenti di Lady Jessica erano state grossolanamente sottovalutate.

da «Un’analisi della crisi di Arrakis», della Principessa Irulan.
(Fatto circolare privatamente: B.G. N. AR-81088587)

Tutto intorno a Lady Jessica, accatastati dovunque nella grande sala di Arrakeen, si trovavano gli innumerevoli pacchi trasportati fin qui: essi rappresentavano l’intera sua vita, scatole, bauli, valige, cartoni, per la maggior parte ancora da aprire. Udì gli scaricatori della Gilda che rovesciavano un’altra slitta della nave traghetto nell’ingresso.

Jessica era in piedi al centro della sala. Si girò lentamente, facendo scorrere lo sguardo sui bassorilievi che spuntavano dall’ombra, le feritoie sulle pareti e le finestre profondamente incassate. L’aspetto anacronistico di quel luogo gigantesco le ricordava la Sala delle Sorelle, alla Scuola Bene Gesserit. Ma alla Scuola c’era stata un’atmosfera calda e accogliente. Qui, le immense pareti di pietra ispiravano soltanto desolazione.

L’architetto, pensò, doveva essersi ispirato a qualche remoto periodo storico, nel ricreare quelle arcate e quegli oscuri drappeggi. Il soffitto ricurvo incombeva su di lei da un’altezza di due piani, con enormi travi incrociate le quali, ne era certa, erano state trasportate su Arrakis a un costo favoloso. Nessun pianeta di quel sistema possedeva alberi che potessero fornire simili travi, a meno che non fossero di legno finto…

Ma Jessica non credeva che lo fossero.

Questa era la Residenza del governo, ai tempi del Vecchio Impero. I costi non avevano avuto una grande importanza, allora, molto prima della venuta degli Harkonnen e della fondazione di Carthag, la loro megalopoli: un luogo scintillante e miserabile duecento chilometri a nordest, al di là della Terra Spezzata. Leto aveva dimostrato molta saggezza, scegliendo questo luogo come sede del governo. Già il suo nome, Arrakeen, aveva un suono simpatico, tradizionale, solenne. Ed era una città più piccola, più facile da difendere e da risanare.

Udì nuovamente il rumore delle slitte scaricate nell’entrata, e sospirò.

Contro una scatola di cartone, alla sua sinistra, era appoggiato il ritratto del padre del Duca. Il nastro d’imballaggio era sciolto e pendeva come una decorazione consunta. Jessica ne stringeva ancora l’estremità. Accanto al dipinto giaceva la testa di un toro nero, montata su una tavola di legno, lucida. La testa era un’isola nera in un mare di carta d’imballaggio. La tavola era distesa sul pavimento, e il muso lustro del toro era rivolto al soffitto come se la bestia stesse per muggire una sfida all’immensa sala echeggiante.

Jessica si chiese che cosa mai l’avesse spinta a tirar fuori quei due oggetti per primi: la testa e il dipinto. Sapeva che c’era qualcosa di simbolico nel gesto. Mai, dal giorno in cui gli inviati del Duca l’avevano comperata alla Scuola, si era sentita così spaventata e insicura.

La testa e il dipinto.

Accrescevano la sua confusione. Rabbrividì, lanciando uno sguardo alle feritoie sopra la sua testa. Erano le prime ore del pomeriggio, ma a quelle latitudini il cielo era cupo e freddo; molto più cupo del caldo colore azzurro di Caladan. Una fitta di nostalgia per il suo mondo perduto l’attanagliò.

Caladan è così lontano.

«Eccoci qui!»

Era la voce del Duca Leto.

Si girò di scatto e lo vide avanzare a lunghi passi sotto l’immensa volta. La sua nera uniforme da lavoro, col rosso falco sul petto, era polverosa e spiegazzata.

«Temevo che ti fossi perduta in questo posto terribile» disse il Duca.

«È una dimora gelida» rispose Lady Jessica. Lo guardò: era alto, la pelle scura le ricordava il verde degli olivi sotto un sole dorato riflesso su acque azzurre. Il grigio dei suoi occhi era il colore del fumo in un bosco, ma il viso era quello di un uccello da preda: sottile e tagliente.

Un’improvvisa paura di lui le afferrò il petto. Era diventato così imperioso, dal giorno in cui aveva deciso di ubbidire all’Imperatore…

«Tutta la città dà una sensazione di freddo» disse ancora.

«È una piccola, sporca città di guarnigione» consentì il Duca, «ma noi la cambieremo» si guardò intorno. «Questa è una sala per ricevimenti ufficiali e cerimonie di Stato. Ho appena dato un’occhiata agli appartamenti dell’ala sud. Sono molto più accoglienti.» Le si avvicinò e le sfiorò il braccio, ammirando in silenzio la sua dignità.

E si chiese ancora una volta chi fossero i suoi ignoti genitori… una Casa rinnegata, forse? Membri della Famiglia Reale caduti in disgrazia? La sua maestà suggeriva sangue imperiale.