Per prima cosa, in questo secondo tipo di regioni si usa come fertilizzante il letame: procedimento molto discutibile, perché costituisce chiaramente una fonte di malattie. Inoltre, alcune di esse subiscono inondazioni periodiche, che le riforniscono di humus. Ma in entrambi i casi la gente vive accanto ai propri rifiuti: si stabilisce un ciclo tra rifiuti, vegetali e uomo.
Si tratta di climi umidi, però. Come conciliare questo con il deserto di Dune?
Beh, anche nel caso di Dune si tratta di vivere a stretto contatto con il pianeta, tenendo presente che nelle situazioni di massima indigenza, i primitivi riescono a sopravvivere meglio dei civilizzati. Come mai?
Molti, nel nostro Paese, tendono a pensare che la dieta degli agricoltori di queste regioni povere sia estremamente frugale. Niente affatto: i loro abitanti hanno una grande varietà di cibi… ma mangiano cose che noi, di solito, non tocchiamo neppure: vegetali selvatici, insetti, ogni parte del pesce. Hanno le vitamine B dalle bevande fermentate e il calcio dal limone. Fanno cuocere alcuni cibi per un periodo brevissimo, e così ottengono il duplice risultato di risparmiare combustibile e di conservare le proprietà essenziali degli alimenti. Oppure, hanno imparato a cuocere altri cibi abbastanza a lungo da renderli digeribili.
Per esempio: durante la guerra di Corea, molti soldati delle Nazioni Unite morirono nei campi di prigionia cinesi e nord-coreani. Ci fu una sola eccezione clamorosa: i turchi.
Per prima cosa, la loro religione affermava, ed essi ne erano convinti (né si riusciva a togliere loro questa convinzione), che erano migliori di coloro che li tenevano prigionieri.
Per seconda cosa, sapevano riconoscere ogni possibile risorsa alimentare: erbe, larve nascoste sotto i tronchi, la parte interna della corteccia degli alberi.
Terza cosa, sapevano che il risone che ricevevano richiede una lunga cottura per essere digeribile, e aspettavano pazientemente che ciò avvenisse.
Quarto, rimanevano uniti come componenti della stessa tribù, e si aiutavano reciprocamente.
Quinto, quando trovavano del cibo, non ne distruggevano la fonte. Raccoglievano soltanto una parte delle larve, non staccavano la corteccia sull’intera circonferenza dell’albero, davano alle piante il tempo di ricrescere.
Erano gente primitiva, con una lunga tradizione contadina di attenzioni verso la terra: inserirsi nel ciclo della natura, senza sconvolgerne il ritmo.
Tutte queste considerazioni, ve ne sarete già accorti, le ho adattate alla situazione di Dune, trasformandole in realtà.
Gli ecologi cominciano adesso a comprendere ciò che i primitivi sanno per istinto: maggiore è il numero delle forme di vita presenti in un certo ecosistema, maggiore è la quantità di energia chimica che vi è contenuta sotto forma di materia vivente; quando le forme di vita proliferano in intima associazione, è lo stesso sistema che ne trae vantaggio. E viceversa.
Lo scambio di energia tra le varie forme viventi è molto complesso. Vi sono moltissime relazioni, e soltanto ora cominciamo a comprenderle. E ci accorgiamo di non sapere affatto fino a che punto giunga la nostra dipendenza da tutta una catena di organismi. È per questo motivo che, per Dune, ho affrontato — e soltanto nelle linee generali — una piccola parte delle forme di mutua dipendenza. Alcuni dettagli della catena ecologica ci sono noti, e compaiono qua e là nel corso della narrazione. Altre volte ho preferito evitare del tutto di parlarne, piuttosto di essere costretto a inventare. Introdurre nuovi misteri in quest’area avrebbe distratto il lettore da quei pochi segreti che sostengono la narrazione.
Tuttavia, in alcuni casi mi sono lasciato trasportare dalla fantasia. Così, su Dune incontrerete uccelli di ogni specie che si sono abituati a bere il sangue; pipistrelli che ottengono dalla saliva umana parte della loro umidità; dispositivi come i precipitatori di rugiada (un apparecchietto semplice e pratico; qualche grossa industria nel campo delle materie plastiche dovrebbe prenderlo in esame). Dune vi regalerà anche la pura fantasia: il ciclo tra vermi, spezia, Piccolo Creatore, che è una deliberata imitazione delle forme di mutua dipendenza che ci sono note.
Cominciate a capire come si costruisce un mondo?
Su Dune, il fattore dominante è la mancanza d’acqua. L’umidità, non l’acqua, diviene argomento di costante preoccupazione. Le piante devono conservare l’umidità intensificando i sistemi con cui la custodiscono nei deserti della Terra.
E gli uomini devono fare altrettanto.
Quando si giunge agli uomini, uno scrittore ha due possibilità. Può introdursi nella narrazione, e spiegare direttamente al lettore questi sistemi per sopravvivere. In alcuni casi l’ho fatto anch’io: ho fornito dettagli sulle tute distillanti e sugli altri abiti per il deserto, e ho sottolineato l’importanza di recuperare l’acqua eliminata dal corpo. Però esiste una seconda tecnica, molto più efficace: quella di mostrare indirettamente questi fatti, inserendoli nel ritratto generale della cultura. E per inserirli occorre rivolgersi al linguaggio, perché il linguaggio è la carta geografica della cultura. Quello di Dune è pieno di indizi sul rigore del pianeta, alcuni inventati per l’occasione, altri presi a prestito dalle culture primitive dei deserti terrestri.
«La fretta è uno strumento di Satana» (detto arabo).
«Il sole è il tuo nemico, la luna la tua amica» (Frank Herbert).
E osservate i diversi modi per chiamare il coltello su Dune, le numerose parole che si riferiscono ai vari modi di uccidere con il veleno, gli usi raffinati dell’assassinio. Senza che ci sia bisogno di dirlo chiaramente, vi accorgete che sono elementi molto importanti nella cultura di Dune e dell’Impero. Notate la generale austerità della vita dei nomadi durante le migrazioni, in contrasto con la ricchezza degli arredi nei campi semipermanenti, la decorazione artistica degli utensili di uso quotidiano. Sono indicazioni superficiali di una precisa forma di civiltà.
Il retroscena culturale si manifesta negli utensili di uso comune. Notate quante volte, su Dune, il termine «acqua» sia unito ad altre parole che indicano uso o funzione.
Il linguaggio è la carta geografica della cultura. L’arabo, per esempio, ha una sessantina di parole per dire «cammello». Basta questa constatazione per capire che importanza rivesta tale animale per la sopravvivenza di un arabo. E non c’è dubbio che un arabo rimarrà altrettanto impressionato dallo spropositato numero di parole che noi usiamo per i vari tipi di trasporto senza cammelli: autocarro, cingolato, carro armato, automobile da corsa e chi più ne ha più ne metta.
Queste indicazioni che ci sono fornite dal linguaggio non sono affatto superficiali. Noi conosciamo le parole mediante le reazioni umane che ci comunicano. Registriamo nelle nostre lingue queste reazioni, e a volte seppelliamo le reazioni — i giudizi — nelle definizioni. Poi la lingua procede, e i giudizi originari vengono dimenticati. Ma non per questo muoiono: continuano a esistere in profondità, e, come in una carta geografica, indicano i punti in cui il nostro mondo si è imposto su di noi.
Questi sottintesi, presenti nelle nostre parole di uso comune, ci permettono di ricostruire la storia culturale della nostra nazione. Ecco alcuni esempi:
Delizia: etimologicamente significa «piacevole alla lingua».