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Lei sorrise e alzò la mano destra. Per un attimo ebbe paura che s’inginocchiasse. «Wellington, per favore.»

«Usare il vostro nome così… io…»

«Ci conosciamo da sei anni» Jessica l’interruppe. «Già da un pezzo avremmo dovuto bandire le formalità tra noi… in privato.»

Yueh azzardò un debole sorriso, e pensò: Credo che abbia funzionato. Adesso penserà che la diversità nel mio modo di comportarmi sia dovuta all’imbarazzo. Non cercherà ragioni più profonde: sarà convinta di sapere già la risposta.

«Mi dispiace, avevo la testa fra le nuvole» disse. «Quando… quando mi sento particolarmente dispiaciuto per voi, mi accade di pensare a voi, temo, come… beh, come a ’Jessica’, semplicemente.»

«Dispiaciuto per me? E perché mai?»

Yueh scrollò le spalle. Da tempo si era accorto che Jessica non aveva il dono completo della Verità, a differenza di Wanna. Tuttavia, quand’era possibile, diceva sempre la verità a Jessica: era più prudente.

«Avete visto questo pianeta, mia… Jessica» s’impappinò sul nome, poi continuò rapidamente: «È così spoglio, confronto a Caladan. E la gente! Tutte quelle donne, lungo il cammino per venire fin qui, che gemevano sotto il velo… E il modo con cui ci guardavano!»

Jessica incrociò le braccia sul petto, e sentì il cryss sulla pelle: la lama ottenuta da un dente del verme delle sabbie, a quanto si diceva. «Noi siamo degli estranei, nient’altro. Siamo una razza diversa, e così pure i nostri modi. Finora hanno conosciuto soltanto quelli degli Harkonnen» guardò a sua volta fuori della finestra. «Che cosa stavi osservando, là fuori?»

Yueh si voltò anche lui. «La gente.»

Jessica gli venne al fianco e seguì il suo sguardo, verso sinistra. C’era una ventina di palme, e il terreno era arido, brullo. Una barriera a schermo proteggeva le palme dalla gente che passava, infagottata nei suoi vestiti, lungo la strada. Jessica notò il leggero tremolio nell’aria fra lei e la gente (il campo di forza che avvolgeva completamente la casa) e studiò la folla, chiedendosi che cosa mai Yueh vi trovasse di così interessante.

Poi, all’improvviso capì, e istintivamente si portò una mano alla guancia. Il modo in cui la gente guardava le palme! In alcuni si leggeva l’invidia, in altri l’odio… e la speranza, anche. Tutti quelli che passavano sembravano letteralmente ipnotizzati da quegli alberi.

«Sapete cosa stanno pensando?» le chiese Yueh.

«Pretenderesti di leggere nella loro mente?»

«La loro mente» ribatté Yueh, «guarda gli alberi, e pensa: ’Lì ci sono almeno cento di noi.’ Ecco cosa pensa la gente.»

Lei lo fissò, perplessa e accigliata. «Perché?»

«Quelle sono palme da datteri. Ognuna di quelle palme richiede quaranta litri di acqua al giorno. A un uomo, invece, ne bastano otto. Una palma, quindi, equivale a cinque uomini. Ci sono venti palme, là fuori: cento uomini.»

«Ma alcuni guardano quegli alberi con una sorta di speranza.»

«Sperano che cada qualche dattero. Ma siamo fuori stagione.»

«Osserviamo questo luogo con occhio troppo critico» replicò Jessica. «Eppure, qui c’è pericolo, è vero, ma anche speranza. La spezia potrebbe davvero farci ricchi. E, accumulando una grande ricchezza, potremmo trasformare completamente questo mondo.»

Rise silenziosamente dentro di sé: Chi cerco di convincere? Questa ilarità silenziosa ruppe il suo controllo, e la lasciò triste e amara. «Ma la sicurezza non è cosa che si possa comprare con quelle ricchezze.»

Yueh si voltò, per nasconderle il suo viso: Se mi fosse solo possibile odiare questa gente, invece di amarla! A modo suo, e per molti tratti, Jessica assomigliava alla sua Wanna. E proprio questo pensiero irrigidì ancora di più i suoi propositi. La crudeltà degli Harkonnen prendeva strade tortuose. Wanna, forse, non era morta, e lui non poteva saperlo.

«Non preoccuparti per noi» disse Jessica. «Il problema è nostro, e non tuo.»

È convinta che sia preoccupato per lei! Sbatté le palpebre per ricacciare le lagrime. Ed è vero. Ma finirò pure col trovarmi davanti al Barone Nero, una volta compiuta la sua volontà, e coglierò l’occasione per colpirlo… proprio nel momento in cui sarà più debole: l’istante del trionfo! Sospirò.

«Disturberei Paul, se entrassi a dargli un’occhiata?» disse lei.

«Per niente. Gli ho dato un calmante.»

«Sopporta bene il cambiamento?»

«È soltanto un po’ stanco, ed eccitato, naturalmente. Ogni quindicenne lo sarebbe, date le circostanze» s’incamminò verso la porta e l’aprì. «È qua dentro.»

Jessica lo seguì, aguzzando gli occhi nella penombra.

Paul riposava su una branda, un braccio infilato sotto una leggera coperta, l’altro ripiegato all’indietro sulla testa. Le stecche della veneziana, accanto al letto, stendevano le loro ombre sul viso e la coperta.

Jessica guardò suo figlio, il volto ovale così simile al suo. Ma i capelli erano quelli del Duca: neri come il carbone e scarmigliati. Le lunghe ciglia gli nascondevano gli occhi verdi. Jessica sorrise, e sentì svanire le proprie paure. Si cimentò a rintracciare le ascendenze genetiche nei lineamenti del figlio: gli occhi erano i suoi, e così il profilo del viso, ma i tratti aguzzi del padre emergevano sempre più marcati in quel viso, come la maturità emerge dalla fanciullezza.

I tratti del viso del figlio le parvero la quintessenza raffinata di un procedimento casuale: un’interminabile fila di coincidenze che convergevano in un punto focale. Provò il desiderio improvviso d’inginocchiarsi accanto al letto e di stringerlo tra le braccia, ma la presenza di Yueh gliel’impedì. Indietreggiò, e chiuse lentamente la porta.

Yueh era ritornato alla finestra, incapace di resistere accanto a Jessica che contemplava il figlio. Perché Wanna non mi ha dato figli? si chiese. Sono un dottore, so che non c’erano impedimenti fisici. A meno che non fosse qualche motivo Bene Gesserit. Forse era destinata a qualcosa di diverso? Ma a che cosa? Mi amava, ne sono certo.

Per la prima volta fu colto dal pensiero che lui, forse, poteva far parte di un piano molto più involuto e complesso di quanto la sua mente non potesse mai concepire.

Jessica si fermò accanto a lui. «Che delizioso abbandono, il sonno di un bambino.»

Yueh rispose meccanicamente: «Se anche gli adulti potessero riposare così…»

«Davvero!»

«Perché dover perdere quella capacità?» disse ancora.

Lei lo fissò, cogliendo la strana sfumatura della sua voce. Ma il suo pensiero era rivolto a Paul, e ai nuovi rigori ai quali l’avrebbe sottoposto l’addestramento in quel pianeta. Come sarebbe stata diversa la sua vita, adesso; e così lontana da quella che un tempo avevano sognato per lui!

«Sì, perdiamo veramente qualcosa» confermò.

Guardò fuori, verso destra; una distesa di arbusti grigioverdi, le foglie secche e i rami polverosi a forma di artiglio che si agitavano al vento. Il cielo, cupo, era sospeso sopra il declivio come una macchia d’inchiostro, e la luminosità lattea del sole di Arrakis inondava la scena di riflessi argentei, come quelli del cryss che nascondeva in seno.

«Il cielo è così buio.»

«In parte è dovuto alla mancanza di umidità» rispose lui.

«Acqua!» esclamò Jessica, all’improvviso. «Da qualsiasi parte ci si volti, sempre questa mancanza dell’acqua!»

«È il grande mistero di Arrakis» disse Yueh.

«Perché mai ce n’è così poca? Ci sono rocce vulcaniche, su questo pianeta. E potrei citare un’altra dozzina di fonti d’umidità. C’è il ghiaccio ai poli. Dicono che è impossibile praticare trivellazioni nel deserto: che le tempeste e le maree di sabbia distruggono gli apparecchi prima che si finisca d’installarli, sempre che non siano divorati dai vermi, ancor prima. Comunque, non hanno mai trovato acqua, laggiù. Ma il mistero, Wellington, il vero mistero sono i pozzi scavati nel sink e nei bacini. Ne hai mai sentito parlare?»