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«A che cosa stai pensando?» gli chiese Jessica.

«Penso che la spezia vale seicentoventimila solari al decagrammo sul mercato libero, oggi. È una ricchezza che può comperare tante cose!»

«Anche tu sei stato afferrato dall’avidità, Wellington?»

«Non dall’avidità.»

«E da che cosa, allora?»

Scosse le spalle. «La futilità.» La fissò. «Vi ricordate di quando avete provato la spezia, la prima volta?»

«Sì, ha un gusto di cinnamomo.»

«Non ha mai due volte lo stesso gusto» replicò Yueh. «È come la vita, ha ogni volta un diverso sapore. Alcuni pensano che la spezia induca una reazione di sapore favorevole. Il corpo, una volta imparato che una cosa è buona per lui, l’accetta, e ce ne trasmette il sapore come gradevole… leggermente euforico. Come la vita, questa sostanza non può essere prodotta per sintesi.»

«Penso che sarebbe stato molto più saggio rinnegare la Casa e fuggire il più lontano possibile dall’Impero» disse Jessica.

Yueh, accorgendosi che Jessica non lo aveva ascoltato, rifletté sulla parole di lei: Sì… e perché non lo ha convinto a farlo? Lei potrebbe convincerlo a fare qualsiasi cosa.

Disse rapidamente, perché cambiava argomento ed era ancora la verità: «Mi giudichereste sfrontato, Jessica… se vi rivolgessi una domanda personale?»

Lei premette il suo corpo sul davanzale, in preda a un’inesplicabile inquietudine: «Naturalmente no. Tu sei un… amico».

«Perché non avete convinto il Duca a sposarvi?»

Lei si girò di scatto, a testa alta, e i suoi occhi lanciavano fiamme: «Convincerlo a sposarmi? Ma…»

«Non avrei dovuto chiederlo» disse Yueh.

«No, no» lei scrollò le spalle. «Ci sono delle ottime ragioni politiche… Finché il mio Duca è scapolo, alcune Grandi Case possono sperare in un’alleanza. E…» (sospirò) «…e inoltre, costringere qualcuno a fare qualcosa, piegarlo al tuo volere, crea in te un atteggiamento cinico verso l’umanità. Degrada qualsiasi cosa tu tocchi. Se lo avessi convinto… in realtà non sarebbe stato lui a farlo.»

«Questo, anche la mia Wanna avrebbe potuto dirlo» mormorò Yueh. E anche questa era la verità. Si portò una mano alla bocca, e inghiottì convulsamente. Non era mai stato così vicino a parlare, a confessare il suo ruolo segreto.

Jessica riprese, spezzando l’incantesimo: «Inoltre, Wellington, il Duca è in realtà due uomini. Uno, quello che io amo moltissimo, è affascinante, intelligente, premuroso, tenero… tutto quello che una donna può desiderare. Ma l’altro è… freddo, insensibile, esigente, egoista… duro e crudele come il vento dell’inverno. È l’uomo formato da suo padre». Una smorfia le contorse il viso. «Se quel vecchio fosse morto quando il Duca è nato!»

Vi fu un improvviso silenzio, e si udì il ticchettio della veneziana nella brezza del ventilatore.

Dopo un po’, Jessica sospirò e disse: «Leto ha ragione… le camere di quest’ala sono molto più accoglienti che quelle dell’altro lato del castello» si guardò intorno, esaminando l’intera stanza. «Se mi vuoi scusare, Wellington, vorrei dare un’altra occhiata a tutta quest’ala prima di assegnare gli appartamenti e di scegliere l’ufficio del Duca.»

Yueh annuì. «Senz’altro.» E pensò: Se solo esistesse il modo di sfuggire al mio compito!

Jessica lasciò ricadere le braccia, si diresse verso la porta che dava nella Grande Sala; esitò sulla soglia per un attimo, poi uscì. Per tutto il tempo che abbiamo parlato mi stava nascondendo qualcosa. Si è tenuto qualcosa per sé, pensò. Per risparmiare i miei sentimenti, senza dubbio. È un brav’uomo. Esitò ancora, stava quasi per tornare indietro ad affrontare Yueh, per strappargli qualsiasi cosa volesse mantenere segreta. Ma questo potrebbe soltanto causargli vergogna, lo spaventerebbe sapere che è così facile leggere in lui. Dovrei fidarmi di più dei miei amici.

Molti hanno ricordato la rapidità con cui Muad’Dib si familiarizzò con le necessità di Arrakis. Le Bene Gesserit, naturalmente, sanno il perché. Agli altri possiamo dire che Muad’Dib imparò rapidamente perché il suo primo addestramento consisteva appunto nel saper imparare. La prima lezione era la certezza di poter imparare. È sconvolgente scoprire quanti non credono di poter imparare e quanti, ancora, credono che imparare sia difficile. Muad’Dib sapeva che ogni esperienza porta in sé una lezione.

dalla «Umanità di Muad’Dib», della Principessa Irulan

Nel suo letto, Paul fingeva di dormire. Era stato facile sbarazzarsi della pillola di sonnifero datagli dal dottor Yueh, facendo finta di averla inghiottita. Paul trattenne a stento una risata. Perfino sua madre aveva creduto che dormisse. Avrebbe voluto saltar su e chiederle il permesso di esplorare la casa, ma lei non avrebbe approvato. Tutto era ancora troppo incerto. No, c’era un sistema migliore.

Se io scivolo fuori di qui, allora non avrò disubbidito a nessun ordine. E resterò in casa, dove non ci sono pericoli.

Sentì sua madre e Yueh che parlavano nell’altra stanza. Un brusio indistinto, qualcosa sulla spezia… gli Harkonnen. La conversazione aumentava e diminuiva d’intensità. L’attenzione di Paul si concentrò sulla testiera scolpita del letto: una falsa testiera, fissata alla parete, che nascondeva in sé tutti i controlli della stanza. C’era un pesce volante, scolpito nel legno, con onde brune sotto di esso. Sapeva che se avesse premuto l’unico occhio visibile del pesce avrebbe acceso le lampade a sospensione, e che facendo ruotare una delle onde avrebbe regolato la ventilazione della stanza. Un’altra comandava la temperatura.

Silenziosamente, Paul si alzò a sedere. Un’alta libreria occupava la parete alla sua sinistra. Facendola girare su un perno, rivelava dietro di sé un armadio con un gran numero di cassetti. La maniglia della porta che si apriva all’esterno aveva la forma della leva di comando di un ornitottero.

La stanza sembrava concepita apposta per accattivarsi tutta la sua simpatia.

La stanza, e l’intero pianeta.

Ripensò al librofilm che Yueh gli aveva mostrato: Arrakis: Stazione Botanica Sperimentale del Deserto di Sua Maestà Imperiale. Era un vecchio librofilm, anteriore alla scoperta della spezia. Un turbinio di nomi passò nella testa di Paul, come uno sciame di vespe, ognuno con la sua fotografia, grazie agli impulsi mnemonici del libro: saguaro, rovo dell’asino, palma da datteri, verbena delle sabbie, primula della sera, cactus a barile, rovo dell’incenso, rovo creosoto… volpe nana, falco del deserto, topo canguro…

Nomi e fotografie, nomi risalenti al passato terrestre dell’uomo; molti di quei nomi non si trovavano più in nessuna parte dell’universo, fuorché su Arrakis.

E tante cose nuove da imparare… la spezia.

E i vermi delle sabbie.

Sentì una porta chiudersi nell’altra stanza, e i passi di sua madre che si allontanavano nel corridoio. Sapeva che il dottor Yueh avrebbe trovato qualcosa da leggere e che sarebbe rimasto nell’altra stanza.

Era giunto il momento dell’esplorazione.

Paul scivolò fuori dal letto e si diresse verso la libreria mobile che dissimulava l’armadio. Vi fu un rumore dietro di lui: si arrestò. La testiera scolpita s’incurvò in avanti. Paul non fece il più piccolo movimento, e questa immobilità gli salvò la vita.

Da dietro il capezzale balzò fuori un piccolo cercatore-assassino, non più lungo di cinque centimetri. Paul lo riconobbe subito: un’arma omicida che ogni bambino di sangue nobile imparava a conoscere in tenera età. Era una sottila scheggia di metallo famelico, guidata da un occhio e da una mano che si trovavano lì vicino. Si conficcava nella carne viva e si scavava una strada lungo il sistema nervoso fino al più vicino organo vitale.