Jessica si passò una mano sulla fronte, stanchissima. È così pericoloso, qui! Studiò il panorama tinto di giallo che si stendeva davanti a lei. Al di là del terreno ducale, c’era una spianata che fungeva da deposito, circondata da un alto recinto: lunghe file di silos per la spezia. Era protetta da numerose torrette di guardia montate su lunghi pali simili a trampoli, che le rendevano simili a enormi ragni in allarme. Vide non meno di venti recinti coi loro silos che si spingevano fino al Muro Scudo e che si moltiplicavano, identici, lungo l’intera spianata.
Lentamente il sole filtrato scomparve. Si accesero le stelle. Una di esse, bassa all’orizzonte, scintillava, ammiccando, secondo un ritmo preciso: blink, blink, blink, blink, blink…
Nell’ombra della stanza, sentì Paul muoversi accanto a lei.
Ma Jessica si concentrò su quella stella luminosa e si rese conto che era troppo bassa e che doveva trovarsi sul Muro Scudo.
Qualcuno faceva segnali!
Cercò di leggere il messaggio, ma era un codice a lei sconosciuto.
Altre luci si erano accese nel pianoro, sotto la parete rocciosa: piccole, gialle e distanziate, sullo sfondo azzurro cupo della notte. Un’altra luce alla sua sinistra crebbe d’intensità e cominciò ad accendersi e a spegnersi rapidamente in direzione della roccia: punto, linea, punto!
E scomparve.
Nel medesimo istante, anche la falsa stella alla sommità del Muro Scudo si estinse.
Segnali… Jessica fu colta da un presentimento.
Perché utilizzavano le luci per segnalare da un capo all’altro della depressione? Perché non usare la normale rete di comunicazioni?
La risposta era ovvia: tutte le comunicazioni erano ormai sotto controllo da parte degli uomini del Duca Leto. I segnali luminosi significavano una sola cosa: i loro nemici si scambiavano messaggi… erano agenti degli Harkonnen!
Qualcuno bussò alla porta, alle loro spalle, e udirono la voce dell’uomo di Hawat: «Tutto a posto, Signore… mia Signora. È tempo di condurre il Giovane Duca da suo padre».
Si dice che il Duca Leto abbia chiuso gli occhi davanti ai pericoli di Arrakis e che si sia precipitato sconsideratamente verso l’abisso. Non sarebbe più giusto affermare che era vissuto così a lungo a contatto con i più gravi pericoli da non poter più valutare un cambiamento nella loro intensità? O non è forse possibile che abbia sacrificato deliberatamente se stesso per consentire a suo figlio una vita migliore? Tutto sta a indicare, del resto, che il Duca non era un uomo che si lasciasse ingannare facilmente.
Il Duca Leto era appoggiato al parapetto della torre di controllo, sui bordi del campo di atterraggio di Arrakeen. In alto sull’orizzonte, a sud, era sospesa la prima luna, sotto di essa, le pareti frastagliate del Muro Scudo scintillavano come ghiaccio secco, attraverso un alone di polvere. Alla sua sinistra le luci di Arrakeen risplendevano di diversi colori: giallo… bianco… azzurro… attraverso il medesimo alone.
Pensò a tutti gli avvisi, con la sua firma, esposti nei centri popolati del pianeta: «Il Nostro Sublime Imperatore Padiscià mi ha incaricato di prendere possesso di questo pianeta e di porre fine ad ogni contesa».
Una formalità, che aumentò il suo senso di solitudine. Chi mai si lascerà ingannare da questo vacuo linguaggio legale? Certamente non i Fremen e neppure le Case Minori che controllano i commerci interni di Arrakis… tutte creature degli Harkonnen, quasi fino all’ultimo uomo.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Gli era difficile frenare la collera.
Vide le luci di un veicolo che proveniva da Arrakeen e che si avvicinava al campo d’atterraggio. Sperò che Paul fosse a bordo, con la scorta. Il ritardo cominciava a inquietarlo, anche se sapeva che era dovuto alle precauzioni del luogotenente di Hawat.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Scosse la testa per ricacciare indietro la collera e contemplò nuovamente il campo: ai bordi, cinque delle sue fregate si drizzavano come sentinelle monolitiche.
Meglio un ritardo dovuto alla prudenza, che…
Il luogotenente era un uomo in gamba. Di una lealtà a tutta prova, segnalato per la promozione.
«Il Nostro Sublime Imperatore Padiscià…»
Se la gente di questa fatiscente città di guarnigione avesse potuto leggere il messaggio privato inviato al suo «Nobile Duca» e le sdegnose allusioni agli uomini e alle donne velati: «… ma che altro ci si può aspettare da barbari il cui desiderio più caro è vivere al di fuori della sicurezza del faufreluches?…»
In quell’istante, il Duca sentì che il suo desiderio più caro sarebbe stato quello di mettere la parola fine a tutte le distinzioni di classe e di smetterla una volta per tutte con quelle insopportabili divisioni. Distolse lo sguardo dalla polvere e lo alzò alle stelle immote, pensando: Intorno a una di quelle piccole luci gira Caladan… non vedrò mai più la mia casa. La nostalgia per Caladan gli serrò il petto, dolorosamente. Sentì che non nasceva da lui: era Caladan che lo chiamava. Non riusciva a convincersi che quel deserto polveroso, Arrakis, fosse la sua casa, e dubitò di riuscirci mai.
Devo nascondere i miei sentimenti, pensò. Per il bene del ragazzo. Se avrà mai una casa, questa è la sua. Per quanto mi riguarda, posso pensare che Arrakis sia un inferno nel quale sono precipitato prima di morire, ma lui deve ispirarsi a questo mondo. Dev’esserci qualcosa, per lui.
Fu travolto da un’ondata di pietà verso se stesso, ma subito la respinse, sdegnato e chissà per quale ragione gli vennero alla memoria due versi di una poesia che Gurney Halleck ripeteva spesso…
Bene, Gurney avrebbe trovato sabbie a sazietà, in quel mondo. Le immense distese centrali, al di là di quei monti gelidi come la luna, erano deserte… rocce nude e sabbia vorticante, un territorio secco, selvaggio, inesplorato, con nuclei di Fremen sparsi qua e là sui bordi e forse anche nel cuore del deserto. Se c’era qualcuno che poteva garantire un futuro alla stirpe degli Atreides, quelli erano i Fremen.
A condizione che gli Harkonnen non fossero riusciti a contagiare anche i Fremen con i loro piani velenosi.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Un rumore di metallo contro metallo fece vibrare la torre; il parapetto sussultò sotto le sue braccia. Le paratie protettive ricaddero davanti a lui, bloccandogli la vista.
Arriva un traghetto, pensò. È tempo di scender giù e lavorare. S’infilò nella scala che portava all’immensa sala di raccolta, cercando di calmarsi e di mostrarsi impassibile per l’imminente incontro.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Gli uomini, eccitatissimi, si rovesciavano dal campo dentro l’immensa cupola gialla, quando lui li raggiunse. Avevano lo zaino spaziale a tracolla, e urlavano e bisbigliavano tra loro allegramente come studenti di ritorno da una vacanza.
«Ehi, te la senti la gravità sotto le suole?»
«Quante G tira questo posto? Sembra solido.»
«Nove decimi, dice il manuale.»