All’ingresso del campo di atterraggio di Arrakeen c’era una scritta rozzamente scolpita, come se fosse stato usato uno strumento rudimentale. Muad’Dib certamente se l’è ripetuta molte volte, a cominciare da quella prima notte su Arrakis, quando fu portato al posto di comando del Duca per assistere alla prima riunione dello stato maggiore. L’iscrizione era una supplica a coloro che lasciavano Arrakis, ma agli occhi di un ragazzo appena sfuggito alla morte acquistava un significato cupo. Diceva: «Oh, tu che sai quanto soffriamo, qui, non dimenticarci nelle tue preghiere.»
«Tutta l’arte militare si basa sul rischio calcolato» disse il Duca. «Ma quando si arriva al punto di dover rischiare la propria famiglia, il calcolo matematico viene sommerso da… altre cose.»
Sapeva di non essere riuscito a controllare il suo furore così completamente come avrebbe voluto; si voltò e cominciò a camminare a lunghi passi su e giù lungo il tavolo.
Il Duca e Paul erano soli nella sala delle conferenze al campo di atterraggio: un locale pieno di echi, ammobiliato soltanto dal lungo tavolo e da alcune sedie a tre gambe di foggia antica. Su un lato, in fondo, c’erano proiettore e uno schermo cartografico. Paul aveva raccontato al padre tutti i particolari dell’attentato col cercatore-assassino, e l’aveva informato della presenza di un traditore.
Il Duca si arrestò di fronte a Paul e picchiò i pugni sul tavolo. «Hawat mi aveva garantito che la casa era sicura!»
Paul disse, esitante: «Anch’io sulle prime ero infuriato. E ho biasimato Hawat. Ma la minaccia veniva dall’esterno: una cosa semplice, abile, diretta. E sarebbe riuscita, senza l’addestramento che tu e molti altri, compreso Hawat, mi avete dato.»
«Perché, vuoi difenderlo?» chiese il Duca.
«Sì.»
«Diventa vecchio. Dovrebbe…»
«È saggio e ha molta esperienza» disse Paul. «Quanti errori di Hawat puoi ricordare?»
«Dovrei essere io a difenderlo, non tu.»
Paul sorrise.
Leto si sedette a capotavola e mise una mano su quella del figlio. «Sei… maturato, in questi ultimi tempi, figlio mio» alzò la mano. «Questo mi rende lieto.» Paul sorrise e anche il Duca di rimando. «Hawat si punirà da solo. S’infurierà con se stesso molto più di quanto potremmo arrabbiarci noi due messi insieme.»
Paul alzò gli occhi alle finestre buie, al di là della carta geografica, sulla notte. La luce della stanza si rifletteva sulla ringhiera, là fuori. Colse un movimento, riconobbe il profilo di una guardia degli Atreides. Poi i suoi occhi scivolarono sulla parete bianca, dietro a suo padre e giù sulla superficie del tavolo, sulle proprie mani strette a pugno.
La porta di fronte al Duca si aprì di colpo. Thufir Hawat comparve sulla soglia. Sembrava invecchiato e il suo aspetto era più consunto del solito. Percorse l’intera lunghezza del tavolo e si arrestò sull’attenti davanti a Leto.
«Mio Signore» disse, fissando un punto sopra la testa del Duca, «ho appena appreso come io sia venuto meno alla fiducia che voi avevate riposto in me. Devo perciò presentarvi le mie di…»
«Oh, siediti, non fare il pazzo» esclamò il Duca. Gli indicò la sedia dalla parte opposta di Paul. «Se hai commesso un errore, lo hai fatto sopravvalutando gli Harkonnen. Le loro semplici menti hanno messo in opera un semplice trucco. Noi non pensavamo a trucchi così semplici. Mio figlio, in quel frangente, ha tenuto a sottolineare più volte che si è salvato grazie soprattutto all’addestramento che gli hai dato. Qui, non hai fallito!» Tamburellò con le dita sulla sedia. «Siediti, ti dico!»
Hawat sprofondò sulla sedia: «Io…»
«Non voglio più sentirne parlare» troncò netto il Duca. «L’incidente è chiuso. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci. Dove sono gli altri?»
«Ho chiesto loro di aspettare fuori, mentre io…»
«Falli entrare.»
Hawat guardò Leto negli occhi. «Mio Signore, io…»
«So quali sono i miei veri amici, Thufir» disse il Duca. «Fai entrare gli uomini.»
Hawat deglutì: «Subito, mio Signore» piroettò sulla sedia e gridò verso la porta aperta: «Gurney, falli entrare!»
Halleck entrò, precedendo gli altri: gli ufficiali dello stato maggiore seri in volto, seguiti dai loro aiutanti più giovani e dagli specialisti, tutti impazienti e decisi. Lo scalpiccio riempì per qualche istante la stanza, mentre gli uomini prendevano posto. Un sottile, penetrante odore di rachag si diffuse lungo il tavolo.
«C’è del caffè per quelli che lo desiderano» disse il Duca.
Passò in rivista i suoi uomini. Sono una buona squadra. A un uomo, di solito, ne capitano di molto peggio in questo tipo di guerra. Aspettò, mentre qualcuno portava il caffè dalla stanza accanto e lo serviva. Lesse la fatica su alcuni dei volti che lo circondavano.
Poi, indossata la sua maschera di tranquilla efficienza, si alzò e richiamò l’attenzione dei presenti battendo il pugno sul tavolo.
«Ebbene, signori» cominciò, «la nostra civiltà sembra essersi così profondamente assuefatta alle invasioni, che noi non possiamo ubbidire a un semplice ordine dell’Imperatore senza che spuntino di nuovo le vecchie usanze.»
Risatine discrete risuonarono intorno al tavolo. Paul si rese conto che suo padre aveva detto la cosa giusta nel giusto tono per sgelare l’ambiente. Perfino la stanchezza che si percepiva nella sua voce aveva la giusta intensità.
«Penso che prima di tutto sia meglio ascoltare Thufir, il quale ci dirà se non ha nulla da aggiungere al suo rapporto sui Fremen» proseguì il Duca. «Thufir?»
Hawat alzò gli occhi. «Vi sarebbero alcune questioni economiche da esaminare dopo il mio rapporto generale, Signore, ma posso fin d’ora confermare che i Fremen sono proprio gli alleati di cui abbiamo bisogno. Aspettano ancora, per vedere se possono fidarsi di noi, ma sembrano agire con franchezza. Ci hanno inviato dei doni: tute distillanti che hanno confezionato essi stessi… mappe di certe zone del deserto che circondano le fortezze abbandonate dagli Harkonnen…» chinò gli occhi sul tavolo. «Le loro informazioni si sono rivelate esatte e ci hanno considerevolmente aiutati nelle nostre trattative con l’Arbitro del Cambio. Hanno anche inviato altri regali: gioielli per Lady Jessica, birra di spezia, dolci, medicinali. I miei uomini stanno esaminando tutto, in questo momento, ma non sembra che ci sia nessun trucco.»
«Ti piace questa gente, Thufir?» chiese un uomo, dal fondo del tavolo.
Hawat si voltò di scatto. «Duncan Idaho dice che sono da ammirare.»
Paul guardò suo padre, poi Hawat, e azzardò una domanda: «Hai nessuna informazione sul loro numero?»
Hawat a sua volta fissò Paul. «In base al cibo prodotto e ad altri indizi, Idaho ha stimato che il complesso di caverne da lui visitato dia asilo ad almeno diecimila persone. Il capo gli ha dichiarato di governare un sietch di duemila focolari. Abbiamo ragione di credere che ci siano moltissime di queste comunità sietch. Tutte sembrano ubbidire a qualcuno chiamato Liet.»
«Questa è una novità» disse Leto.
«Potrebbe essere un errore da parte mia, signore. Certi indizi sembrano indicare che questo Liet sia una divinità locale.»
Un altro uomo, all’altra estremità del tavolo, si schiarì la gola: «È accertato che trattano con i contrabbandieri?»
«Una carovana di contrabbandieri ha lasciato il sietch dove si trovava Idaho per un viaggio di diciotto giorni. Le bestie portavano un ingente carico di spezia.»
«Sembra che i contrabbandieri abbiano raddoppiato la propria attività in questo periodo di disordini» disse il Duca. «Questo merita un’attenta riflessione. Non conviene occuparci troppo delle fregate senza autorizzazione che vanno e vengono sul pianeta. L’hanno sempre fatto. Ma alcune di esse sfuggono completamente al nostro controllo… e non è bene.»