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Mulligan si affrettò ad alzarsi. «Propongo che un comitato composto da alcuni soci di questa Associazione, scelti fra gli inserzionisti del “Times Tribune”, scrivano una lettera all’editore lamentandosi degli articoli filocomunisti di questo signor De Kemp.»

«Approvo la mozione» disse uno dei presenti.

La faccenda fu conclusa rapidamente, all’unanimità. Ed Wonder concluse che Dave Zeiss, quello del Saloon, avrebbe dovuto aspettare un bel po’ prima di recuperare i quattrini che Buzz gli doveva.

Poi fu la volta di un lungo rapporto, molto dettagliato, da parte di un certo comitato per la biblioteca. A quanto pareva l’Associazione aveva avuto da ridire sulla sezione per bambini della biblioteca comunale. Il rapporto riguardava il rifiuto del municipio di bandire Robin Hood perché non finisse nelle mani dei bambini.

Ed Wonder dovette improvvisamente scuotersi. Jensen Fontaine aveva appena pronunciato il suo nome.

Il padre di Helen stava dicendo: «Durante la mia assenza, so che abbiamo ricevuto parecchie lettere riguardanti il carattere sovversivo delle cosiddette prediche di un certo…» abbassò gli occhi sugli appunti davanti a sé sul tavolo e sbuffò con incredulità. «…Ezechiele Giosuè Tubber. Il socio Helen Fontaine, mia figlia, e un redattore della stazione radio Wan sono intervenuti a uno di questi raduni religiosi; come conseguenza, Helen è stata costretta a letto per qualche tempo. Il signor Edward Wonder darà ora un resoconto completo dei fatti.»

Ed si alzò. Ormai quella storia non gli piaceva più, e aveva l’infelice sensazione che, alla fine, non gli avrebbero certo dato la medaglia.

«A dire la verità» incominciò Ed «non sono un’autorità in fatto di attività sovversive clandestine. Capisco che si tratta di un problema importante e che bisogna impedire che il Paese sia rovesciato dai comunisti, eccetera… Ma, dovete capire, sgobbo da mattina a sera alla radio. Forse ad alcuni di voi è capitato di sentire il programma Ai limiti del reale, in onda ogni venerdì sera…»

La voce di Mulligan si fece sentire minacciosa. «Il resoconto su Tubber, Piccolo Ed, il resoconto su Tubber. Niente pubblicità.»

Ed si schiarì la gola. «Sì, signore. Allora, francamente, da quello che ho potuto sentire io, Tubber è anticomunista più che comunista. Per lo meno, così dice lui. Si lamenta che la gente sia troppo materialista, e che si concentri troppo sui beni che possiede o consuma, invece che sui beni spirituali… Almeno così mi pare.»

Uno intervenne: «In chiesa, il mio sacerdote predica le stesse cose tutte le domeniche. Il lunedì ce le siamo già dimenticate.»

Un altro disse: «Ah, davvero, è così, eh? Questo è un problema di cui volevo discutere da tempo. Che cosa c’è che non va nella nostra società dei consumi? Che cosa accadrebbe alla nostra economia se dessimo retta a questi pretesi capi religiosi?»

Fontaine rimise in azione il martello. «Prosegua» ordinò a Ed. Non sembrava troppo soddisfatto della piega che aveva preso il suo resoconto, almeno fino a quel momento.

«Ecco, tutto quello che vi posso dire è che non mi è sembrato un comunista. Per la precisione, Helen, la signorina Fontaine, gli ha fatto una domanda diretta a questo proposito, e lui ha messo bene in chiaro di non essere comunista.»

La donna che aveva esposto la situazione della biblioteca, affascinata dal nuovo argomento, domandò: «Ma che cosa c’entra questo con il fatto che Helen è dovuta ricorrere a cure mediche? Che cosa le ha fatto?»

Ed lanciò uno sguardo angosciato a Jensen Fontaine, il quale aveva aperto la bocca come per dire qualcosa ma poi aveva stretto talmente le labbra che sarebbe stato difficile inserirvi la punta di un coltello.

Ed si decise a rispondere. «Insomma, la signorina Fontaine lo stava, come dire… lo stava provocando, in un certo senso. Lui è andato su tutte le furie, e… le ha lanciato una maledizione.»

Ci fu un attimo di silenzio assoluto. Stavano pensando tutti alla stessa cosa a cui aveva pensato Fontaine sentendolo la prima volta.

Ed cercò di spiegare meglio. «Cioè, ha fatto un sortilegio su di lei.»

Wannamaker Doolittle domandò: «Un sortilegio?»

«Una specie di stregoneria, una formula magica» rispose Ed.

«Cosa c’entra questo con il fatto che è a letto?»

Ed, disperato, mormorò: «Dice di sentire un prurito fortissimo.»

Jensen Fontaine batté sul tavolo un colpo di martello. «Basta con queste divagazioni assurde. Vuole ripetere esattamente quello che ha detto questo fanatico?»

Nei suoi anni desolati di aspirante attore, Ed aveva dedicato molto tempo a esercitare la memoria per imparare le battute. Fece uno sforzo mentale. Disse: «Grosso modo, le sue parole erano queste: “In verità, io maledico la vanagloria delle donne. In verità…” quando Tubber si eccita passa al tu, biblico, costellato di immagini retoriche… “In verità, mai più tu troverai piacere nella vanità. In verità, mai più troverai piacere nella moda o nei cosmetici.”»

Ed si fermò lì, sperando che fosse sufficiente. «Non sono proprio le sue parole, ma quasi. Perciò, capite, non stava solo maledicendo Helen. Da come ha parlato, praticamente si tratta di una maledizione scagliata contro tutte le donne…»

Si fermò a metà frase perché proprio in quell’istante una punta di ghiaccio gli punse la base della spina dorsale e un brivido gelato incominciò a salirgli, piano piano, verso il cervello.

7

Il mattino seguente, Ed Wonder non aveva quasi più dubbi. Scorse i dispacci delle telescriventi. Non era una moda nazionale, era una moda mondiale che aveva invaso l’Europa Confederata, il Complesso Sovietico, a cui non erano sfuggiti nemmeno gli aborigeni delle isole Galapagos.

Mode ce n’erano state anche prima. Mode di ogni tipo, e la gente ci andava matta. Ma la follia degli hula hoop di dieci anni prima non era stata niente in confronto a quello che succedeva ora. A mano a mano che il tempo dedicato a guardare la televisione raggiungeva quello dedicato al lavoro nell’occupazione giornaliera del cittadino medio, la lievissima tendenza a ribellarsi contro la mummificazione totale davanti allo schermo in salotto veniva assorbita dal nuovo cinema tridimensionale, che per lo meno, costringeva la gente a camminare fino al teatro più vicino, e dalle mode, dalle mode, e ancora dalle mode.

Nuove mode nel cibo, negli abiti, nel linguaggio, nuove mode in ogni campo. Era un sistema per mezzo del quale i manipolatori della nuova teoria economica dell’invecchiamento-per-stile riuscivano a tenere in piedi la spaventosa produzione dei loro beni. Se le decappottabili erano le auto di moda, le berline scomparivano del tutto, e solo uno svitato, un anticonformista si sarebbe fatto vedere in giro su una macchina chiusa. Se si portavano abiti di tweed, i tessuti di gabardine erano al bando, e tanto valeva gettare nella pattumiera il vestito comprato ieri. Se veniva di moda il cibo cinese, la cucina italiana, turca, russa o scozzese, o qualsiasi altra cucina fosse stata in auge il mese prima, lasciava la scena. E il ristorante, che troppo ottimisticamente avesse fatto una scorta nelle dispense e nei frigoriferi di leccornie in voga ieri, poteva anche gettare tutto quel ben di Dio a gatti e cani.

Sì, di mode ce n’erano state anche prima, ma come questa mai.

Negli ultimissimi tempi, quasi tutte le mode che iniziavano in occidente si diffondevano anche nel Complesso Sovietico. Se tutti a Super Washington bevevano il cocktail “Sapore della battaglia”, dopo tre mesi al Cremlino si brindava con lo stesso miscuglio alla salute del Numero Uno.

Se i bermuda in seta stampata di madras impazzavano a Super New York come abito da sera all’ultimo grido, entro poche settimane invadevano anche le strade di Pechino intorno alle anche sottili delle belle cinesine.

Ma per lo meno ci volevano settimane.