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«Della Grande Madre. Tu sei la Grande Madre, io sono la Grande Madre, l’uccellino che canta sul ramo dell’albero è la Grande Madre. La Grande Madre è tutto. La Grande Madre è la vita. Così insegna mio padre.»

«Qualcosa come Madre Natura, insomma?» chiese Ed, un po’ sollevato.

«Esattamente come Madre Natura. La Grande Madre è un’entità trascendente. Noi pellegrini sul sentiero di Elisio non siamo tanto primitivi da credere in, ecco, in un Dio. Non in un Dio personale, individuale. Se dobbiamo ricorrere a termini trascendenti, ed evidentemente lo dobbiamo fare per diffondere il nostro messaggio, allora usiamo il concetto di Grande Madre come simbolo religioso dell’uomo che ricerca valori spirituali. La Dea Triplice, la Dea Bianca esprimevano l’universalità nelle civiltà primitive. Il fenomeno si è protratto fino ai tempi moderni. Maria è stata quasi deificata dai cristiani. E vedi che anche gli atei si riferiscono a Madre Natura, non parlano di un Padre Natura. Papà dice che le religioni che hanno degradato la donna, come la religione maomettana, sono spregevoli e inevitabilmente reazionarie.»

«Ah» fece Ed Wonder. Si massaggiò pensosamente il mento. «Comincio a pensare che non siate proprio del tutto svitati come avevo creduto all’inizio.»

Nefertiti Tubber non aveva nemmeno sentito quelle parole. Anche la sua faccia era pensosa, ma lei pensava ad altro. «Potremmo sistemarci in quella casetta vuota vicino al laboratorio, probabilmente» disse.

Ed, in un primo momento, non afferrò dove Nefertiti volesse andare a parare. «Il laboratorio?» chiese.

«Sì, dove il dottor Wetzler sta facendo le sue ricerche sulla nuova cura.»

«Wetzler! Non vorrai dire per caso…»

«Sì, Felix Wetzler.»

«Felix Wetzler sarebbe qui sepolto nei boschi… cioè, vive in questa piccola comunità?»

«Certamente. Lo avevano costretto a lavorare su certe pillole che facessero venire i capelli ricci alle donne, o una cosa del genere. Lui, disgustato, ha piantato tutto ed è venuto qui.»

«Felix Wetzler lavora qui… Ma, santo cielo, è il più famoso… e qual è la nuova cura che sta studiando?»

«La cura contro la morte. Potremmo avere la villetta accanto alla sua. Sarà finita fra un paio di giorni. E…»

Ed si alzò di scatto. Ormai era chiaro dove voleva andare a parare Nefertiti. «Vedi» disse in fretta «come ti ho detto, ho questo importante incarico governativo. Devo andare a trovare tuo padre.»

Evidentemente lei non era affatto d’accordo, ma si alzò. «Quando tornerai, Ed?»

«Ecco, non so. Capisci come sono queste cose? Il governo. Lavoro alle dipendenze dirette di Dwight Hopkins in persona. Prima il dovere. Sai, tutte queste sciocchezze…» Incominciò a indietreggiare verso la porta.

Nefertiti lo seguì passo per passo. Giunti all’uscio, sollevò la faccia verso di lui, per un ultimo bacio. «Edward, sai quando mi sono innamorata di te?»

«No… no» rispose in fretta. «Non saprei proprio.»

«Quando ho sentito che ti chiamavano Piccolo Ed. A te non piace essere chiamato Piccolo Ed. Ma tutti ti chiamano così. A loro non importa che tu detesti quel nome, non sanno nemmeno che lo detesti.»

Lui la guardò. Improvvisamente gli sembrò tutto diverso. Disse: «Tu non mi hai mai chiamato così.»

«No.»

Si sporse in avanti e la baciò. Non sembrava più che avesse bisogno di esercizio, adesso. Ci riprovò, tanto per esserne più certo. No, non aveva affatto bisogno di esercizio.

Ed disse: «Tornerò.»

«Lo so.»

Ed Wonder trovò Ezechiele Giosuè Tubber seduto a un tavolo d’angolo al bar Dixon.

Ed aveva percorso la strada da Elisio a Woodstock, attraverso Shady e Bearsville, in uno stato di confusione mentale. Ma, a pensarci bene, si era sempre sentito confuso ogni volta che aveva avuto a che fare con Tubber e il suo movimento. L’uomo che all’inizio gli era apparso come un predicatore ambulante, un ciarlatano infarcito di spirito biblico, si era rivelato alla fine come uno studioso con tanto di diploma di accademico ottenuto alla facoltà di economia politica di Harvard. Sua figlia, che aveva fatto l’ingresso in scena come una semplice ragazza di campagna, florida e piena di rossori nel suo abitino di cotone stampato, si era trasformata in una ex-spogliarellista, una seguace adottata dalla famiglia Tubber. La nuova religione, che sembrava una delle tante sette di fanatici, in realtà vantava fra i suoi fedeli il premio Nobel Martha Kent e lo scienziato Felix Wetzler, biochimico numero uno del Paese.

Tuttavia, il timore di Ed nei confronti di Ezechiele Giosuè Tubber cominciava a scomparire. Il profeta dalla faccia lincolnesca… se si poteva coniare quel nuovo aggettivo… stava assumendo dimensioni reali.

Ed Wonder rifletté su quell’ultimo concetto. Dimensioni reali… un corno! Non c’era nessuna realtà in una situazione che comprendeva l’esistenza di maledizioni con effetto universale, solo perché un vecchio pazzo s’infuriava contro questo o quell’aspetto della società moderna, a seconda di come tirava il vento.

Scorse il carro e il cavallo di Tubber di fronte a un piccolo bar automatico con la semplice insegna DA DIXON. Ed si frugò in tasca alla ricerca di una moneta per il parchimetro; c’era un posto vuoto accanto al carro di Tubber. Proprio in quel momento vide un poliziotto che veniva lungo il marciapiede verso di lui, fissando incredulo ogni parchimetro.

Quando arrivò presso la Volksair, Ed gli chiese: «Qualcosa che non va, agente?»

Quello lo guardò, sconvolto dallo stupore. «Questi parchimetri. È successa una cosa pazzesca!»

Ed Wonder già immaginava il peggio ma non poté fare a meno di chiedere: «Che cosa?»

«È scomparsa la fessura per infilare la moneta. Maledizione, ci deve pur essere la fessura. Ieri c’era. C’è sempre stata la fessura per le monete. È pazzesco. Viene quasi da pensare che si tratti di un sortilegio…»

«Già» disse Ed stancamente. Scese dalla Volksair e si avviò all’ingresso del bar.

Dal locale usciva un’ondata assordante di musica. Il juke-box aveva il volume al massimo. Ed Wonder appoggiò la spalla alla porta, spinse ed entrò. Da quando radio e TV erano state eliminate, tutti sembravano essersi gettati a corpo morto sui juke-box e li facevano funzionare dalla mattina alla sera a tutto volume.

Tubber stava seduto in un angolo, davanti a un bicchiere di birra. Benché il locale fosse sovraffollato, era solo al tavolo. Mentre Ed si avvicinava, Tubber sollevò gli occhi e gli rivolse un sorriso di cortese benvenuto.

«Ah, caro fratello. Vuole bere una birra con me?»

Ed si fece coraggio e prese una sedia. Con tutta la fermezza che poté trovare, disse: «Molto volentieri. Ma mi sorprende che lei beva birra. Pensavo che tutti voi riformatori foste astemi. Come mai i pellegrini sulla via di Elisio non hanno obiezioni morali contro il demone dell’alcol?»

Tubber continuò a sorridere. Per lo meno il vecchio sembrava di buon umore. Alzò la voce per sopraffare il frastuono del juke-box. «Vedo che comincia ad apprendere la nostra terminologia. Ma perché dovremmo condannare la benedizione dell’alcol? È stato uno dei primi doni che la Grande Madre ha fatto all’umanità. Per quanto possiamo risalire nel tempo, nella storia e nella preistoria, l’uomo ha sempre conosciuto e apprezzato le bevande alcoliche.» Sollevò in alto il bicchiere di birra. «Ci sono rimaste le prove scritte della distillazione della birra che si faceva in Mesopotamia nel cinquemila avanti Cristo. A proposito, sapeva che quando la Bibbia menziona il vino, specialmente nei libri più antichi, si riferisce a vino di cereali che, naturalmente, è birra? La birra è una bevanda molto più antica del vino.»

«No, non lo sapevo» rispose Ed. Si ordinò al dispositivo automatico un Manhattan; aveva bisogno di un sostegno più solido di quello che gli avrebbe offerto una birra. «Molte religioni, però, sottolineano che l’alcol può avere effetti disastrosi. I Maomettani, per esempio, non ne permettono l’uso.»