Ed Greenwood
Elminster
Il viaggio
Per Cheryl Freedman
e
Merle von Thorn
Due donne che Elminster volle al suo fianco (spade, allegria e quant’altro) quand’era a Myth Drannor
Prologo
Era tempo di grande discordia nel magnifico regno di Cormanthor, in cui le donne e gli uomini delle famiglie più antiche e più fiere percepivano una minaccia per il loro orgoglio sfavillante, una minaccia proveniente dall’autorità stessa che li governava, una minaccia presente sin dagli incubi più neri di gioventù: la Bestia Maleodorante che viene di notte, l’Aggressore Irsuto che attende il momento più adatto per uccidere, saccheggiare, violare e depredare. Il mostro la cui morsa stringe giorno dopo giorno nuovi regni: il terrore chiamato Uomo.
«In verità, ho promesso qualcosa al principe in cambio della corona», affermò il re ostentando tutta la sua altezza e inspirando fino a far tremare il petto. Lievemente imbarazzato, si sistemò la corona scintillante di gemme e cuspidi dorate, poi abbozzò un sorriso di autocompiacimento per aver creato tale pausa drammatica. Abbassando la voce per sottolineare la nobiltà delle sue parole, aggiunse infine: «Ho promesso che avrei realizzato il suo più grande desiderio».
Tra gli spettatori si levò un coro di mormorii beffardi e stupiti.
Il grasso sovrano non prestò loro la minima attenzione, anzi si voltò con un gran turbinio di vesti d’oro e, appoggiando un piede su un teschio di drago palesemente falso, assunse un atteggiamento vittorioso. La luce delle sfere fluttuanti color bianco e porpora che lo accompagnavano si riflesse sul filo metallico ben visibile, nel punto in cui esso attraversava il teschio di pezza per sostenere la spada reale che si presumeva avesse trafitto le ossa del drago con un unico e poderoso fendente.
Da sovrano anziano e saggio qual era, il re guardò per un attimo l’orizzonte, posando lo sguardo grave su cose che solo lui poteva vedere. Poi, quasi timidamente, fissò il servitore inginocchiato.
«E dimmi, ti prego», mormorò, «che cosa desidera di più? Hmmm?»
Il servo si gettò lungo disteso sul tappeto, battendo, nel movimento brusco, la testa sul pavimento di pietra. Roteò gli occhi e fece una breve smorfia di dolore, con gran divertimento degli spettatori, dopodiché lo guardò. «Sire», esclamò finalmente con tono incerto, «egli desidera morire ricco».
Il re girò e avanzò di qualche passo. Allora il servo si sollevò su un ginocchio e fece per indietreggiare, intimorito dalla risolutezza del sovrano, ma rimase impietrito quando scorse un sorriso allegro sul suo volto.
Il sovrano si chinò per prendergli il braccio, lo sollevò dal tappeto e gli mise in mano un oggetto tintinnante.
Il servitore abbassò lo sguardo: era una borsa colma di monete. Incredulo, guardò nuovamente il sovrano e deglutì.
Il sorriso del re divenne ancor più ampio. «Morire ricco? E così sarà: metti questa borsa tra le sue mani e poi trafiggilo con la tua spada. Più volte, come penso vada di moda oggi».
Il pubblico esplose in risa e urla d’ilarità, che subito dopo si trasformarono in applausi, mentre le luci che avvolgevano gli attori si spegnevano con i consueti sbuffi di fumo rosso, segno che la scena era finita.
La gente cominciò ad allontanarsi in ogni direzione: i più anziani si muovevano compostamente, i giovani invece presero a correre nella notte, come pesci frenetici che si inseguono per mangiare… o per essere mangiati. Alcuni irruppero nel mezzo di crocchi di languidi pettegoli, poi presero a danzare nell’aria, sfrecciando lungo il margine del campo magico profumato. Solo pochi rimasero a guardare la scena successiva de La giusta fine del re umano Halthor; tali parodie dei modi avidi e meschini del Popolo Irsuto all’inizio erano divertenti, ma in seguito risultavano molto monotone, e gli elfi di Cormanthor odiavano annoiarsi, o quanto meno, ammetterlo.
Non che non si trattasse di una festa grandiosa: gli Erladden non avevano badato a spese per preparare i campi magici. Suoni, profumi e immagini turbinavano costantemente nell’aria e si diffondevano sulle teste dei festanti, e il potere del campo magico permetteva a tutti di volare, di librarsi verso qualsiasi luogo. Ora gran parte degli elfi fluttuava nel vuoto, toccando terra solo di tanto in tanto per rifocillarsi.
Quella notte le mura del giardino, solitamente spoglie, erano adorne di sculture raffiguranti unicorni, destrieri alati, fate danzanti e cervi impennati. Se toccata, ogni statuetta si apriva, presentando al suo interno caraffe a forma di goccia contenenti un frizzante vino della luna o altre bevande ottenute dalle diverse uve color rubino degli Erladden. Accanto alle bottiglie di vino spuntavano coperchi di cristallo, le cui cupole coprivano figurine di formaggio scelto, nocciole arrostite o stelle di zucchero.
Tra le luci multicolori che vagavano in mezzo ai festanti si sprigionavano esalazioni magiche che avrebbero reso allegro e vivace qualsiasi elfo di sangue puro. Alcuni Cormyth ubriachi volavano a zigzag, ridacchiando, da una nuvola all’altra, gli occhi troppo lucidi per vedere il mondo che li circondava. Sui rami degli alberi imponenti che sovrastavano il giardino, stelle magiche luccicanti ammiccavano e scivolavano qua e là tra le foglie. Quando la luna sorse e ne cancellò il chiarore, illuminò l’intera scena dei festeggiamenti sfrenati e gioiosi. Quella notte mezza Cormanthor si divertiva ballando.
«Sorprendentemente ricordo ancora le parole per raggiungere questo luogo».
La voce proruppe nell’oscurità della notte senza preavviso, e il suo tono gradevole gli richiamò alla mente i tempi passati.
Si aspettava quella visita e non fu sorpreso di udire i toni bassi e melodiosi della voce provenire dall’ombra, nella parte più profonda della sua dimora, dov’era situato il letto.
Un letto che riteneva ancora molto riposante, nonostante l’età iniziasse a logorargli le ossa. Il Coronal di Cormanthor volse la testa verso il chiaro di luna, distogliendo lo sguardo dalle acque calme che circondavano l’isola-giardino e, con un sorriso più allegro di quanto in realtà lui non fosse, esclamò: «Benvenuta, Grande Signora degli Starym».
Ci fu un momento di silenzio, poi la voce parlò ancora. «Una volta ero molto di più», affermò quasi malinconica.
Eltargrim si alzò in piedi e tese la mano verso il punto in cui, come gli suggerì la vista magica, si trovava la donna. «Vieni, amica mia». Poi, con aria quasi supplichevole, le porse anche l’altra mano. «Lyntra mia».
Le ombre svanirono, e Ildilyntra Starym uscì nella luce lunare, i suoi occhi simili a due pozze scure colme di speranza, che egli ricordava tanto vividamente nei suoi sogni. Sogni che gli avevano fatto visita per anni, fino a quella notte. Sogni ispirati a ricordi che riuscivano ancora a sconvolgerlo…
Il Coronal sentì un nodo alla gola e la bocca gli si seccò improvvisamente. «Accomodati», mormorò, indicando il Trono Vivente.
Gli Starym si ritenevano la più antica e la più pura famiglia dell’Unico Vero Regno, ed erano senza dubbio la casata più fiera. La loro matriarca gli si avvicinò, sempre fissandolo con i suoi occhi scuri.
Gli bastò uno sguardo per capire che gli anni non avevano intaccato la sua pelle eburnea, né quel corpo tanto perfetto da mozzargli il fiato. Portava, come allora, i capelli di un blu quasi nero raccolti in trecce che le sfioravano i calcagni; era scalza, e i suoi incantesimi le mantenevano sia i capelli sia i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo. Indossava la tunica di rappresentanza della sua casata: i draghi gemelli, tempestati di gemme, dello stemma degli Starym le coprivano il ventre, e le loro ali in rilievo su uno sfondo dorato le lambivano il seno.