Detto ciò, Lady Lhoril si voltò e si accinse a uscire della piscina, lasciando dietro di sé una scia di tenebroso silenzio.
«Aspetta!», esclamò Alaglossa, afferrando il polso bagnato di Phuingara. «Rimani!»
Lady Lhoril si voltò, guardò la padrona di casa con occhi fiammeggianti, e affermò con voce pacata: «Alaglossa, per tutto ciò che ti è caro, fa’ in modo che mi trattino bene».
Lady Tornglara annuì brevemente. «Ithrythra ha ragione», asserì austera, il corpo lievemente proteso. «È una questione troppo importante per essere accantonata, e continuare a scherzare, a litigare, e rimanere a guardare mentre la città viene alle mani per quest’uomo. Dobbiamo lavorarci i nostri signori per mantenere la pace, convincerli che per un semplice uomo non vale la pena detronizzare il Coronal, né sguainare le spade o iniziare faide».
«Mio marito non mi ascolta mai», sussurrò tragicamente Duilya Evendusk. «Che cosa posso fare?»
«Costringilo a farlo», le suggerì Cilivren. «Fatti notare, attrai la sua attenzione».
«Lo fa soltanto quando siamo…»
«Allora, carissima», si intromise Phuingara con voce tagliente come una frusta, «è tempo che impari un po’ a farti obbedire da lui. Alaglossa, ti ringrazio di avermi trattenuto qui; abbiamo molto lavoro da fare. Hai un po’ di quello sherry triplo?»
Lady Tornglara la fissò sorpresa. «Naturalmente», rispose, «ma per quale motivo?»
«Uno dei pochi modi che riesco a immaginare per conquistare il rispetto di Lord Evendusk», rispose la Lhoril con entusiasmo, «quando la mattina si lamenta a causa di ciò che ha bevuto la sera prima e impreca contro i suoi figli per ciò che hanno rotto la notte precedente, in preda al furore e alla ridarella – dovevi proprio sceglierti uno zoticone patentato, vero Duilya? – è stappare una bottiglia piena di quello sherry, berla d’un fiato davanti a lui, e poi sedergli accanto senza agitarsi o barcollare. Quando rimarrà a bocca aperta davanti alla sua gentile signora trasformatasi in un leone, potrai parlargli schiettamente e fargli sapere che non vedi il bisogno di fare tutto quel baccano».
«E poi?», chiese Duilya, il viso bianco al solo pensiero di sopraffare il marito.
«E poi potrai trascinarlo a letto di fronte a tutta la servitù», continuò Phuingara, «e dirgli che bere ogni notte non è una scusa per barcollare come un idiota, per mettere in ridicolo l’onore di casa, mentre tu vieni trascurata».
Vi fu un attimo di silenzio, poi le donne iniziarono a ridere: dapprima piano, poi sempre più forte a mano a mano che compresero l’intero significato delle parole di Phuingara.
Fu Cilivren a smettere per prima. «Vuoi che ci alleniamo a bere sherry triplo finché non saremo in grado di scolarcene una bottiglia senza conseguenze? Phuingara, moriremo». Fece una smorfia. «Dico sul serio: quella roba brucia le interiora come fuoco!»
Lady Lhoril si strinse spalle. «Allora impareremo a tollerarne qualche bicchiere senza lacrime o tremori, ed elaboreremo un incantesimo, solo per noi, che trasformerà in acqua ciò che passa dalle nostre labbra, mentre beviamo. Noi perseguiamo il rispetto, non vogliamo affogare le preoccupazioni per il regno come fanno i nostri mariti. Perché pensate che bevano in quel modo? Hanno veduto ciò che ha visto Ithrythra, e semplicemente non vogliono affrontarlo».
«Perciò dovrei trascinare il mio Ihimbraskar in camera da letto dopo averlo umiliato di fronte a tutti», esclamò Duilya a voce bassa, «e poi? Mi stordirà, getterà le mie ossa dalla finestra, e il giorno seguente andrà in cerca di una donna nuova e più giovane!»
«Non se lo costringerai a sedere e gli snocciolerai le stesse parole ardenti che ha pronunciato prima Ithrythra», le spiegò Alaglossa. «Anche se non si dichiarerà d’accordo, rimarrà tanto stupito del fatto che tu abbia pensato a tali questioni, che probabilmente discuterà con te come se fossi un suo pari: al che gli dirai che una moglie serve proprio a quello, e poi lo porterai a letto».
Duilya la fissò per un istante, e poi scoppiò a ridere selvaggiamente. «Oh, Hanali benedici tutte noi! Se avessi la forza di farlo…»
«Lady Evendusk», esordì Ithrythra, «ti darebbe terribilmente fastidio se noi quattro fossimo legate a te con uno o due incantesimi, per… ah, assisterti nel discorso, nei momenti d’imbarazzo?»
Duilya spalancò la bocca, e poi si guardò lentamente intorno. «Lo fareste?»
«Potremmo beneficiare tutte di un tale incantesimo», affermò lentamente Phuingara. «Buona idea, Ithrythra», aggiunse, poi si rivolse ad Alaglossa. «Vai a prendere quello sherry, Lady Tornglara: serve un brindisi».
«Anche se in futuro io e altri ti insegneremo alcuni incantesimi della nostra Gente», affermò la Srinshee, «ora ti attende un periodo assai pericoloso, Elminster». L’anziana maga sorrise. «Non c’è bisogno che sia io a dirtelo».
El annuì. «Ed è per questo che mi hai condotto qui». Il giovane si guardò intorno, le pareti impolverate e scure, poi domandò: «Ma che posto è questo?»
«Una tomba sacra al nostro popolo: una torre infestata dagli spettri, un tempo la dimora della prima nobile e fiera casata che tentò di elevarsi al di sopra degli altri elfi. La dimora dei Dlardrageth».
«Che cosa è accaduto loro?»
«Essi corteggiarono incubi e succubi, nel tentativi di dar vita a una razza più forte. Pochi sopravvissero a tali relazioni, e meno ancora alle nascite che seguirono, e tutti i popoli elfi si sollevarono contro di loro. I pochi sopravvissuti furono murati qui dai nostri incantesimi più potenti, fino alla fine dei loro giorni». Oluevaera, pensierosa, passò la mano su una colonna impolverata, e rivelò il bassorilievo di un volto lascivo. «Alcuni di quegli incantesimi permangono, malgrado giovani e intrepidi signori di Cormanthor siano penetrati nella torre più di mille anni fa e abbiano depredato il castello delle ricchezze dei Dlardrageth. Hanno trovato poche cose di valore, ma le hanno portate via tutte. Inoltre, hanno sparso la voce dei fantasmi che dimorano in questo luogo».
«Fantasmi?», domandò Elminster tranquillamente. La Srinshee annuì.
«Oh, ve ne sono alcuni, ma niente di cui temere. Ciò che più conta è non venire disturbati».
«Avete intenzione di insegnarmi la magia?»
«No», rispose l’elfa, avvicinandosi per guardarlo negli occhi. «Sarai tu a insegnarmela».
El inarcò entrambe le sopracciglia. «Io…?»
«Con questo», aggiunse semplicemente, poi allargò le mani, e in esse comparve improvvisamente il suo libro degli incantesimi.
L’anziana maga barcollò un istante sotto il suo peso, al che El lo afferrò automaticamente e lo esaminò attentamente. Sì, era proprio il suo. Abbandonato nella bisaccia in una valle di felci, nell’impenetrabile foresta in cui la Pattuglia del Corvo Bianco era stata sopraffatta dai ruukha.
«I miei più sinceri ringraziamenti, Signora», esclamò Elminster, inginocchiandosi in maniera da non sovrastarla con la sua altezza. «Tuttavia, a rischio di sembrare ingrato, vi domando se coloro che sono rimasti sconvolti dal fatto che uno della mia razza sia stato nominato armathor non stiano mettendo a soqquadro Cormanthor per cercarmi. E gli altri elfi del vostro regno non si aspettano forse che mi assuma i doveri della categoria: in altre parole, che mi faccia vedere?»
«Ti vedranno, e anche molto presto», rispose la Srinshee con aria truce. «Sarai l’oggetto di numerosi complotti e trame, organizzati persino da parte di coloro che non desiderano la tua morte. Siamo annoiati, nella bella città di Cormanthor, e ogni nuovo interesse diventa un divertimento per tutte le grandi casate. Troppo spesso però il loro divertimento guasta o distrugge il giocattolo».
«Gli elfi iniziano a sembrarmi sempre più simili agli uomini», asserì El, sedendosi sopra una colonna spezzata.