«Sono meravigliosi», mormorò Symrustar. «Non è vero, cugina?»
Amaranthae si chinò a guardare i codadiseta, che roteavano e guizzavano nel cilindro di vetro per accaparrarsi la posizione migliore sotto le dita di Symrustar, dalle quali sapevano sarebbe presto piovuto un po’ di cibo. «Adoro il modo in cui il sole trasforma le loro squame in minuscoli arcobaleni», rispose Amaranthae diplomaticamente, dopo aver stabilito da tempo che, per nulla al mondo, la cugina avrebbe compreso la sua repulsione per i pesci.
Symrustar possedeva più di mille compagni squamati e pinnati. Dalla boccia più alta, nella quale stava ora sminuzzando pezzetti di cibo segreto che lei stessa impastava – Amaranthae aveva udito voci secondo le quali gli ingredienti principali erano carne, sangue e ossa macinati di pretendenti respinti -, l’acquario di vetro di Symrustar scendeva per più di trenta metri fino a terra, in una scultura fantastica di tubi, sfere, e camere più ampie di vetro cavo, a forma di drago o di altre bestie. Amaranthae rimase nei dintorni – ma non troppo vicina – il giorno che lo zio scoprì che una certa vasca enorme, vicino all’estremità del ramo, gli assomigliava fin nei dettagli meno lusinghieri.
Lord Auglamyr non era certo conosciuto per il suo temperamento gentile. «Una nube temporalesca di orgoglio smisurato, che spazza via tutto ciò che incontra», lo definì una volta un’anziana signora della corte, e le sue parole erano state molto gentili.
Symrustar aveva probabilmente preso da lui la sua spietatezza e la sua amoralità. Amaranthae cercava di essere fedele e servizievole con l’ambiziosa cugina poiché, malgrado la forte amicizia, Symrustar Auglamyr l’avrebbe tradita in men che non si dica, se solo Amaranthae le fosse stata minimamente d’intralcio.
Non sono più libera di tutti questi pesci, pensò Amaranthae, sporgendosi dalla pergola rotondeggiante sotto cui sedevano, situata alla base dell’unico ramo lungo rimasto di quell’albero all’estremità più occidentale di Casa Auglamyr. Una successione infinita di tubi, colonne e sfere di vetro rifletteva la luce del mattino. I servi si guardavano bene dal disturbarle in quel luogo: soprattutto evitavano di infastidire Symrustar, e utilizzavano perciò i campanelli parlanti.
Le due ragazze trascorrevano all’acquario una mattinata dopo l’altra, sdraiate su cuscini, a sorseggiare succo di frutti di bosco fermentati, mentre l’erede Auglamyr tramava e macchinava ad alta voce per realizzare le sue ambizioni – molte delle quali, alla triste Amaranthae, sembravano non essere altro che semplici capricci – e la cugina ascoltava e le dava sostegno al momento opportuno.
Quella mattina Symrustar era davvero eccitata e gli occhi le scintillavano; ripose il mangime e congedò con un gesto della mano le minuscole bocche spalancate nella boccia, prima di voltarsi verso la cugina. Per tutti gli dei, era davvero bella, pensò Amaranthae, guardando le spalle aggraziate della ragazza e le lunghe curve del suo corpo avvolte dalle vesti di seta. Aveva un volto e due occhi particolari tra tutte le bellezze di corte. Non si meravigliava che tanti signori elfi drizzassero le orecchie alla sua vista.
Symrustar sollevò un sopracciglio e chiese: «Stai pensando ciò che penso io, cugina?»
Amaranthae scrollò le spalle, sorrise, e rispose quella che le sembrava essere la cosa più sicura. «Stavo pensando a quell’uomo che il Coronal ha nominato armathor, e mi domando che faresti tu a questo proposito, mia vivace cugina!»
Symrustar le strizzò l’occhio. «Mi conosci bene, ‘Ranthae. Come pensi che sarebbe amoreggiare con un umano? Hmmm?»
Amaranthae rabbrividì. «Un uomo? Ughhh. Pesante e goffo come un cervo, con la stessa puzza… e tutti quei peli!»
La cugina annuì, lo sguardo distante. «Vero. E tuttavia ho udito che quel bruto puzzolente sa fare magie: magie umane, molto inferiori alle nostre, naturalmente, ma differenti. Con un po’ di quegli incantesimi fra le mie mani potrei sorprendere qualcuno dei nostri giovani maghi arroganti. Malgrado non siano altro che inezie in grado di impressionare fanciulli creduloni, Sua Eminenza il Signor Elandorr Waelvor potrebbe fare al caso mio».
Amaranthae scosse il capo in mesto divertimento. «Non l’hai tormentato abbastanza?»
Symrustar inarcò nuovamente l’armonioso sopracciglio, e la fulminò con gli occhi. «Abbastanza? Non esiste il termine “abbastanza” per Elandorr il Buffone! Quando non è impegnato a proclamare a tutta la città che questo o quell’incantesimo da lui creato è più grande di qualsiasi cosa possa elaborare la scontrosa Symrustar Auglamyr, è appostato sotto la finestra della mia camera da letto a blaterare nuove lusinghe! Non importa quanto fermamente…»
«Duramente», la corresse Amaranthae con un sorriso.
«… lo rifiuti!», continuò la cugina, «poche notti dopo torna alla carica. Nel frattempo allude alla dolcezza incomparabile delle mie grazie con i compagni di bevute, si rivolge alle signore di passaggio affermando che io lo adoro in segreto, e si aggira clandestinamente nelle biblioteche degli uomini – uomini - sottraendo poesie d’amore di dubbio gusto e facendole passare come sue, corteggiandomi con tutto lo stile e la grazia di uno gnomo clown in cerca di applausi!»
«È venuto la scorsa notte?»
«Come al solito! Ho udito tre guardie cacciarlo dal mio balcone, ed egli ha avuto la sfacciataggine di tentare incantesimi trasformatori su di loro!»
«Tu gliel’hai impedito, naturalmente», mormorò Amaranthae.
«No», rispose Symrustar sdegnosa, «li ho lasciati rospi fino al mattino. Nessuna guardia degna del balcone della mia stanza dovrebbe essere impreparata a un semplice incantesimo di trasformazione!»
«Oh, Symma!» ribatté la cugina con aria di rimprovero.
Gli occhi di Symrustar fiammeggiarono nuovamente. «Pensi che sia crudele? Cugina, trascorri una notte nel mio letto, tormentata da Waelvor, il Signore dell’Amore, e vedrai quanto ti sentirai caritatevole verso le guardie che avrebbero dovuto tenerlo alla larga!»
«Symma, è un maestro mago!»
«E allora fa’ che esse siano maestre guardie, e che indossino gli amuleti repellenti che ho dato loro. Che importa se devono versare sangue per rendersi utili? In tal modo gli incantesimi tanto astuti di Elandorr ricadranno su di lui! Qualche cicatrice non farà loro del male. Per non parlare della fedeltà giurata a Casa Auglamyr!»
Symrustar si alzò e si mise a camminare incessantemente per la cavità tondeggiante, il sole mattutino scintillante sulla catena adorna di gemme che le avvolgeva la gamba sinistra, dalla caviglia alla giarrettiera. «Perché, tre mesi fa», sbottò, agitando le braccia, «quando è giunto fino alle tende del mio letto, ho trovato una guardia nascosta che spiava, per tutti i demoni! Voleva vedermi svenire tra le braccia di Elandorr! Oh, affermò di essere lì per proteggermi contro l‘“ultima umiliazione”, ma era disteso sopra il baldacchino, vestito in velluto nero per confondersi, e portava tanti amuleti da non reggerne il peso! Sostenne che glieli aveva dati mio padre, ma non sarei sorpresa di scoprire che alcuni di essi provenivano da Casa Waelvor!»
«Che cosa gli hai fatto?», domandò Amaranthae, voltando il capo per nascondere uno sbadiglio.
Symrustar sorrise gelidamente. «Gli ho mostrato tutto ciò che stava tentando di vedere, l’ho spogliato completamente e… i pesci».
Amaranthae rabbrividì. «L’hai dato in pasto ai…?»
Symrustar annuì. «Umm-hmmm, e il giorno dopo ho fatto un fardello dei suoi effetti personali e l’ho spedito a Elandorr, con un messaggio d’amore che diceva che tali ornamenti erano tutto ciò che restava degli ultimi dieci signori che pensavano d’esser degni di fare la corte a Symrustar Auglamyr». La ragazza sospirò teatralmente. «Naturalmente la notte successiva ci ha riprovato».