Amaranthae scosse il capo. «Perché non lo dici semplicemente a tuo padre, e non lasci che egli si rechi rabbiosamente da Lord Waelvor? Sai come sono le vecchie casate: Kuskyn Waelvor andrebbe su tutte le furie se sapesse che uno dei suoi figli corteggia una ragazza di una casata tanto “sconosciuta” come la nostra, o anche una ragazza dell’alta società senza il suo permesso, ed Elandorr si ritroverebbe rinchiuso in una gabbia magica per i prossimi dieci anni, prima che possa aprir bocca!»
Symrustar fissò la cugina. «E in tutto ciò, ‘Ranthae, dove starebbe il divertimento?»
Amaranthae scosse nuovamente la testa, sorridendo. «Naturalmente. Che la prudenza non intralci mai il divertimento!»
La cugina sorrise. «Naturalmente». Allungò la mano verso il campanello parlante. «Un altro cordiale alle bacche dell’alba, cugina?»
Amaranthae le rispose con un sorriso e si appoggiò al ramo frondoso che circondava il salottino. «E perché no? Gettiamoci tutti gli incantesimi alle spalle, e mettiamoci a ululare alla luna!»
«Un’idea perfetta», assentì Symrustar, stirando il magnifico corpo, «consideriamo i miei piani per quest’uomo “Elminster”. Sì, provvederò affinché questi uomini abbiano la loro utilità». Col piede spostò il bicchiere di cordiale vuoto e con esso suonò i campanelli parlanti.
Mentre le corde risuonavano gentilmente, Amaranthae Auglamyr rabbrividì per il piacere freddo e incurante percepito nella voce della cugina, una voce che suonò in qualche modo affamata.
«Non vorrei essere negli stivali di quell’uomo, indipendentemente dalla potenza della sua magia», mormorò Taeglyn da sotto, dove stava selezionando attentamente le gemme sul velluto, con l’ausilio di un sortilegio d’ingrandimento.
«Non me ne importa nulla di quell’uomo in fondo, è una bestia dei campi», grugnì Delmuth, «ma sono gli stivali del Coronal che voglio veder indosso a qualcun altro, dopo che avrò fatto ciò che devo».
«“Avrò fatto ciò che devo”? Ma, Signore, il Flith Minore è quasi completo! Manca solo un rubino per la stella Esmel, e due diamanti per la Vraelen!», affermò il servo indicando la scintillante mappa stellare che occupava la metà superiore della stanza a volta. In risposta ai nomi delle stelle, l’incantesimo che Delmuth aveva effettuato attivò due punti precisi nell’aria.
Essi brillarono, in attesa delle gemme, ma Delmuth Echorn discese lentamente dalla volta stellata, il lavoro di una vita. Le costellazioni che aveva creato con le gemme sfavillavano attorno a lui. «Sì, fare ciò che devo, ossia, distruggere quell’uomo. Se lasciamo la questione irrisolta, verranno qui a migliaia, un mare di feccia intorno alle nostre caviglie, che mendicherà o ci minaccerà ogniqualvolta usciremo di casa, e distruggerà le foreste come solo l’uomo sa fare!» I suoi stivali poggiarono sul lucido pavimento di marmo nero. «Se potessero toccare le stelle», ringhiò, indicando il suo cielo in miniatura, «scopriremmo che ne manca sicuramente qualcuna!»
Delmuth sollevò lo sguardo verso gli ammiccanti punti di luce, che obbedientemente si spensero. Poi porse a Taeglyn i guanti, con le loro lunghe punte metalliche simili ad artigli, si stirò come un grande e agile felino della giungla, e aggiunse, il tono ancora rabbioso: «Sì, il nostro saggio e potente Coronal è impazzito, e nessuno di noi sembra sufficientemente pronto per alzare le mani e la voce contro di lui. Ebbene, se nessun altro elfo ne ha il fegato, io farò il primo passo. Il Coronal non ha impedito che l’erba cattiva giungesse nel cuore del nostro amato regno di Cormanthor, e ora questa dev’essere estirpata».
Serio in volto, l’elfo uscì a grandi passi dalla stanza, spalancando le porte con i suoi bracciali incantati. Queste sbatterono rumorosamente contro il muro, si scheggiarono e si chiusero, ma Delmuth Echorn nemmeno le udì.
Pochi istanti più tardi eccolo attraversare la sala d’entrata, dall’alto soffitto e dalle numerose balconate, con in mano la sua migliore spada di cinghiale, illuminata di verde per la potente magia che racchiudeva. In quell’istante, tuttavia, suo zio Neldor si sporse dalla ringhiera di una scala ed esclamò: «Per la barba invisibile di Corellon, che cosa hai in mente? Non è stata convocata alcuna Caccia per questa sera, ed è ancora l’alba!»
«Non sto andando a caccia, Zio», rispose Delmuth senza rallentare né sollevare lo sguardo. «Esco a ripulire il regno dagli uomini».
«Intendi da quello nominato armathor dal nostro Coronal? Ragazzo, dov’è finito il tuo buon senso? Nessuna tromba ha annunciato la tua sfida! Nessun’accusa è stata presentata davanti alla corte, o a quest’uomo! I duelli devono essere dichiarati ufficialmente. Questa è la legge!»
Delmuth si fermò davanti all’alto portone per dar tempo al servo che lo seguiva di aprirlo, ed esclamò: «Vado a uccidere un verme, non una persona con regolare diritto di esser trattata come un nostro simile, qualsiasi cosa sostenga il Coronal».
Dopodiché lanciò la spada in aria e la seguì all’esterno; poco prima che le porte si chiudessero alle sue spalle, Neldor lo vide riafferrare la spada al volo e attraversare il giardino di funghi, la via più diretta che conduceva al cancello di biancospino.
«Stai commettendo un errore, ragazzo», esclamò tristemente, «e trascinerai la nostra casata con te». Ma nell’anticamera di Castel Echorn non c’era più nessuno, eccezion fatta per il servo impaurito, che sollevò lo sguardo verso Neldor.
Invece di ignorarlo o sbraitare un ordine repentino, il più anziano elfo vivente di sangue Echorn allargò le mani in gesto di rassegnazione.
Accanto alla porta il servo cominciò a piangere.
L’elfo vestito di pelle nera si esibì in una perfetta capriola in aria, passò attraverso la tenda di foglie rampicanti, e nel contempo lanciò la spada, con fare esuberante, nel tronco di un albero dalle foglie blu. La lama penetrò a fondo e vibrò violentemente.
Dopodiché l’elfo riprese l’arma, gridando allegramente: «Ho-ho, questa volta un gatto è stato certamente liberato in mezzo alle sonnolente colombe di corte!»
«Silenzio, Athtar; ti hanno probabilmente udito fino al mare!» Galan Goadulphyn stava disponendo attentamente alcuni mucchietti di perle di vetro sul suo mantello, disteso sul ceppo di un albero, caduto quando Cormanthor era ancora giovane. Solo lui sapeva che esse rappresentavano i prestiti pagati a una certa società fantasma di funghicoltura da parte di numerose casate prestigiose del regno. Galan stava cercando il modo di saldare i debiti contratti con alcuni dei padroni più severi chiedendo prestiti ad altri.
Se non fosse riuscito a trovare rapidamente una soluzione prima di sera, sarebbe stato costretto a lasciare Toril per una o due vite. O almeno per tutto il tempo necessario ad elaborare magie capaci di ricostruire un’identità, a prova d’incantesimi rivelatori. Un ragno cacciatore dell’oscurità si mise a camminare sul mantello, e Galan lo guardò in cagnesco.
«E allora? Ormai lo sanno tutti!»
«Io no», rispose Galan, gli occhi fissi in quelli del ragno. I due si guardarono per un istante, un occhio contro mille. Poi l’insetto decise che la prudenza non riguardava solo gli altri esseri viventi e si allontanò dal mantello tanto velocemente quanto gli consentirono le sue lunghe ed esili zampe. «Illuminami».
Athtar, lieto di poterlo fare, respirò profondamente. «Bene, il Coronal ha trovato un uomo non so dove, l’ha portato a corte e nominato suo erede e armathor del regno! Il nostro prossimo Coronal sarà un uomo!»
«Che cosa?», Galan scosse il capo come per schiarirsi le idee, si allontanò di scatto dal mantello, e afferrò l’amico per il bavero. «Athtar Nlossae», ringhiò, scuotendo l’elfo dagli abiti di pelle come se fosse una grande bambola di pezza, «per favore, non dire sciocchezze! Nel nome di tutte le false divinità dei nani, dove diamine avrebbe trovato quest’umano? Sotto una roccia? Nelle sue stanze? In un paio di ciabatte smesse?» Lasciò andare Athtar, che barcollò all’indietro finché non trovò un tronco d’albero a cui appoggiarsi, e dietro al quale rifugiarsi.