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«Usate “cane incolto” come titolo?», chiese Elminster con aria innocente. «Vi si addice, sì, ma devo avvisarvi che noi umani non ci aspettiamo un tale candore dal popolo elfo. Potreste suscitare ilarità involontaria nelle relazioni con i miei simili!»

Delmuth ruggì ancora più furioso, poi socchiuse gli occhi e sibilò come un serpente. «Speri di farmi innervosire! Non ti darò tale soddisfazione, umano senza nome!»

«Sono Elminster Aumar», rispose divertito El, «Principe di Athalant. Ah, ma a voi non interessano i titoli dei sudici regni umani, non è vero?»

«Sì, esattamente!», sbottò Delmuth. «Hem, ossia, no!» Dalle sue braccia scaturirono nuove fiamme, che come prima iniziarono a vorticare intorno ai polsi, segno di un antico incantesimo elfo da battaglia in preparazione.

Il suo mantello difensivo era dunque completamente distrutto, oppure era ancora presente ed efficace? Nella pausa che seguì il giovane si concentrò silenziosamente per creare un altro scudo protettivo, sospettando che Delmuth avrebbe tentato di bloccare il primo incantesimo visibile che avesse scagliato.

Quando lo scudo fu completo, El cominciò una falsa magia. Come previsto, quand’era a metà procedura, fulmini smeraldini sfrecciarono verso di lui, schiantandosi sullo scudo, per poi rimbalzare. Delmuth rise trionfante, ed El vide dalle scintille di ritorno che il mantello dell’elfo era sopravvissuto o che era stato rimpiazzato. Al che il giovane alzò le spalle, sorrise, e iniziò un altro incantesimo; altrettanto fece l’elfo.

Nel frattempo, senza che i due se ne avvedessero, uno degli alberi colpiti dai fulmini di Elminster scivolò oltre il margine del precipizio, portando con sé terra e pietre, e iniziò a scivolare verso il basso.

«Oh, stai attento, Elminster!», mormorò Lady Oluevaera Estelda, seduta a mezz’aria in una stanza scura e polverosa, situata nel cuore del castello spettrale dei Dlardrageth. I suoi occhi erano fissi su un picco distante sul quale due figure lottavano in un turbinio d’incantesimi. Una avrebbe potuto essere il futuro di Cormanthor, mentre l’altra apparteneva a una delle sue più altezzose e ostinate casate e, per giunta, ne era l’erede.

Qualcuno avrebbe definito tradimento un intervento in un duello magico, ma quello non era un vero e proprio duello, bensì un uomo attirato in trappola dall’inganno di un elfo. Molti altri avrebbero giudicato traditore chiunque avesse aiutato un uomo impegnato a combattere un elfo. Eppure lei lo avrebbe fatto, se solo avesse potuto. La Srinshee aveva visto molte più estati – e anche molti più inverni – di ogni altro elfo che oggi respirava l’aria pura di Cormanthor, e tutti si sarebbero rimessi al suo giudizio in qualsiasi disputa importante fra casate. Benissimo, dunque: il suo giudizio avrebbe dovuto essere rispettato anche in quella questione personale.

Non che, tra quelle rovine disabitate, qualcuno, oltre i fantasmi, avrebbe potuto impedirglielo.

L’unico rapido legame che aveva con la Roccia di Druindar era lo stesso Elminster, ma creare una distrazione nella sua mente al momento sbagliato, avrebbe potuto essergli fatale. La maga avrebbe, tuttavia, potuto «viaggiare» attraverso di lui, esponendosi, nel processo, alle stesse magie scagliate contro il giovane, finché El non avesse posato lo sguardo su un punto dell’ambiente circostante che non fosse pieno di magia o di elfi saltellanti: a quel punto avrebbe potuto lanciarsi fuori, e materializzarsi.

Un incantesimo potente, ma semplice. La Srinshee mormorò le parole necessarie senza nemmeno distogliere gli occhi dal campo di battaglia, e si sentì scivolare nella mente di Elminster, come se si stesse immergendo in acque calde e formicolanti, che la condussero rapidamente lungo un tunnel angusto, verso una luce distante.

La luce si fece più intensa e più grande con una velocità terrificante, finché non divenne un volto di una bellezza serena, un volto che la Srinshee conosceva, con le lunghe trecce che si agitavano come serpenti irrequieti. Un volto dagli occhi seri che appariva minaccioso come un muro alto e infinito davanti a lei, contro il quale si sarebbe inevitabilmente schiantata.

«Oh, Signora Dea, un’altra volta no!», grido l’anziana maga, un istante prima di colpire quelle labbra giganti increspate. «Non vedi che sto cercando di aiutarl…?»

Quando riaprì gli occhi, Oluevaera si ritrovò a fissare un soffitto scuro, coperto di ragnatele, a pochi centimetri dal suo volto. Era distesa scompostamente su un letto di fiamme nere che le solleticavano la pelle nuda. La pelle nuda? Che era stato della sua tunica? Fiamme nere come migliaia di piume, e che non la bruciavano.

Le fiamme sembravano giungere da sopra; lei era apparsa attraverso il soffitto? Con stupore si passò una mano sul corpo. Le sue vesti, insieme agli amuleti e alle gemme magiche – sì, anche quelli intrecciati nei capelli – erano scomparsi, ma il suo corpo era liscio e florido, e di nuovo giovane!

Grandi Corellon, Labelas, e Hanali! Che cos’era accaduto… ma no. Grande Mystra! Tutto ciò era opera della dea umana!

Si mise bruscamente a sedere, in mezzo alle fiamme. Perché? Come ricompensa per aver aiutato il ragazzo, o come scusa per averla esclusa dalla sua mente? Sarebbe stata una condizione duratura? O solo un ironico assaggio di giovinezza? Aveva ancora i suoi incantesimi, i suoi ricordi, i…

«Dunque, vecchia megera, hai barattato la fedeltà al tuo regno per un incantesimo di giovinezza dell’umano! Mi domandavo perché l’avessi aiutato!»

La Srinshee si voltò per vedere il suo interlocutore, e istintivamente sollevò le braccia per coprirsi il petto. Conosceva quella voce fredda, ma come faceva a essere in quel luogo?

«Cormanthor sa come trattare i traditori!», ringhiò, e un fulmine di luce sfrigolò attraverso la stanza.

Affondò nelle fiamme nere e venne assorbito senza emettere suono alcuno: queste risucchiarono ogni scintilla della saetta dalle mani dello sbalordito Mago Supremo di Corte Ilimitar, in piedi di fronte alla maga ringiovanita.

La donna gli lanciò un triste sguardo di rimprovero e parlò a bassa voce, rivolgendosi all’elfo col suo vecchio soprannome. «Com’è possibile, Limi, che dopo essere stato mio allievo e aver imparato dalle mie labbra l’amore per Cormanthor, tu osi parlare in nome del regno mentre tenti di uccidermi?»

«Non cercare di piegare la mia volontà con le parole, strega!», sbottò Ilimitar, sollevando uno scettro minaccioso. Le fiamme scure toccarono il pavimento di pietra della stanza e svanirono, e d’un tratto Oluevaera fu in piedi di fronte a lui, le mani allargate per mostrargli che era nuda e disarmata.

Il mago le puntò lo scettro senza esitazione, e affermò freddamente: «Prega affinché gli dei ti perdonino, traditrice!»

Un fuoco smeraldino scaturì dallo scettro non appena ebbe pronunciato quell’ultima parola offensiva; la Srinshee balzò lateralmente, e vacillò – erano secoli che il suo corpo non obbediva tanto rapidamente – poi si gettò scompostamente a terra mentre la morte dello scettro tuonava sopra di lei.

Il suo alunno di un tempo puntò lo scettro più in basso, ma Oluevaera aveva già sibilato le parole di cui necessitava: la sua furia, tuttavia, si schiantò inutilmente contro uno scudo invisibile.

Ora aveva il suo mantello protettivo, e dubitava che gli scettri del mago avrebbero potuto distruggerlo. Da allora in poi sarebbe stato uno scambio d’incantesimi, a meno che non fosse riuscita a dissuaderlo dal suo intento. Il Supremo Mago di Corte che lei stessa aveva formato. Sì, Earynspieir l’avrebbe attaccata un giorno, non era mai stato suo amico. Ma non pensava che Ilimitar l’avrebbe fatto tanto presto.

Oluevaera si alzò e affrontò il mago furioso, a cui non arrivava nemmeno alla spalla. «Perché mi hai cercato qui, Ilimitar?», gli domandò la Srinshee.