Earynspieir volse lo sguardo per incontrare quello del giovane, e increspò le labbra, disgustato. Poi sembrò prendere una decisione.
«Molto bene», esordì a bassa voce. «Forse le mie reazioni naturali verso la vostra razza mi hanno dominato in maniera eccessiva. Il Coronal mi ha detto che ci sarebbe stato tutto più facile se vi avessimo considerato un nostro simile, uno della Gente, in visita da un regno lontano, sotto spoglie umane. Ci proverò, giovane Elminster. Abbiate pazienza, per favore: in questo momento sono turbato per altre ragioni».
«Potete parlarmene?», domandò gentilmente Elminster.
L’elfo gli lanciò un’occhiata tagliente, e poi esclamò: «Permettetemi di parlarvi con la più assoluta franchezza: un’abitudine comune alla vostra razza, ho udito. Inoltre, dubito che conosciate altri cormanthoniani ciarlieri con cui spettegolare, il che mi consente di parlare più apertamente di quanto non farei altrimenti».
El annuì. Il mago elfo si guardò intorno per assicurarsi che nessuno potesse udirli, poi si voltò verso il giovane principe e affermò schiettamente: «La decisione presa dal Coronal nei vostri confronti non è stata accolta con favore. Molti appartenenti al rango di armathor sono venuti a palazzo per rinunciare al titolo e hanno spezzato le spade di fronte al Coronal. Si è parlato apertamente di spodestarlo e persino di ucciderlo, e di uccidere voi e di… spiacevolezze in generale riguardanti la presente serata, e momenti futuri, finché egli, ah, non rinsavirà. La mia controparte, il Supremo Mago di Corte Ilimitar, non è ancora tornato da una visita alle antiche casate del regno, e non so dove sia al momento, né se sia stato vittima di qualche tradimento. Pensavo di essere il confidente più vicino del Coronal, e ora, senza una parola d’avvertimento, egli sparisce, e al suo posto apparite voi, parlando cautamente della “sicurezza del regno”, una questione che ho buone ragioni di credere fosse stata affidata a me. Nonostante la fiducia dimostratavi dal Coronal, io vi vedo come un mago umano dai poteri sconosciuti ma probabilmente grandi, che ha una stretta relazione con una dea della stessa razza, e pertanto, qualsiasi siano i vostri scopi, rappresentate un grande pericolo per Cormanthor. Capite perché non sono molto gentile con voi?»
«Certamente», rispose Elminster, «e non ve ne voglio, Signor Mago. Come potreste fare altrimenti, trovandovi in tali difficoltà?»
«Esattamente», rispose Earynspieir con tono soddisfatto, quasi sorridendo. «Credo di aver giudicato male la vostra razza, signore, e voi con essa: non sapevo che gli uomini si interessassero agli intrighi e alle gioie e ai dolori altrui. Tutto ciò che vediamo e sentiamo di voi, sono le asce che tagliano gli alberi e le spade che mettono a tacere persino la più piccola disputa».
«È vero che alcuni di. noi tendono a esercitare la forma più rapida e diretta di politica», assentì Elminster con un sorriso. «Tuttavia devo affrettarmi a far presente a voi e a tutti i cittadini di Cormanthor che giudicare gli uomini di tutte le terre con lo stesso metro non è più corretto di giudicare gli elfi della luna alla stregua degli elfi delle tenebre, o viceversa».
Il mago accanto a lui si voltò e si irrigidì, gli occhi fiammeggianti, ma poi si rilassò visibilmente e abbozzò una breve risata. «Capisco ciò che intendete, giovanotto, ma devo ricordarvi che il popolo di Cormanthor non è avvezzo a parole tanto audaci e schiette, e potrebbe odiarle ancor più di quanto non le detesti io».
«Comprendo», rispose El. «Vi porgo le mie scuse. Qualcuno si sta avvicinando. O meglio: un paio di persone».
Earynspieir guardò il ragazzo, sorpreso da quell’improvvisa concisione, e si voltò a vedere la coppia elfa che l’umano aveva indicato. Tenevano un bicchiere in mano e avanzavano con calma a braccetto, ma l’espressione di sorpresa sui loro volti non lasciava dubbi sul fatto che si stessero dirigendo verso di loro, per vedere l’armathor umano di cui si era tanto parlato.
«Ah», esclamò a bassa voce Earynspieir, «manca qualche ora al tramonto, e all’inizio delle danze e ah, dei bagordi meno dignitosi. Chi desidera parlare francamente, scambiare due chiacchiere con il Coronal, oppure scegliere nuovi partner per una sera, arriva spesso a quest’ora, quando i festanti sono scarsi e hanno consumato poco vino; è il caso di questa coppia. Permettetemi di fare le presentazioni».
El inclinò rispettosamente il capo mentre la coppia si dirigeva verso il Supremo Mago di Corte. L’elfo maschio, giovane e bello, guardò Elminster come fosse un cinghiale della foresta vestitosi per la festa, ma la meravigliosa ragazza dalla tunica trasparente che stava al suo fianco sorrise incantevolmente a Earynspieir ed esclamò: «Buona sera, Onorato Signore. Noi ci aspettavamo di trovare il Coronal. È indisposto?»
«Nostra Altezza il Coronal è stato chiamato per questioni urgenti del regno qualche minuto fa. Lasciate che vi presenti invece il Principe Elminster della terra di Athalantar, nostro recente armathor».
Il giovane elfo continuò a fissare El, senza proferire parola. La sua signora ridacchiò a disagio e affermò: «Un piacere inaspettato e, se mi è permesso dirlo, molto insolito».
La donna non tese la mano.
«Principe Elminster», mormorò il Supremo Mago di Corte, «permettetemi di presentarvi Lord Qildor, della Casata dei Revven, e Lady Aurae della Casata dei Shaeremae. Spero il piacere sia reciproco».
Elminster fece un inchino. «Il mio onore è illuminato», esclamò, ricordando una frase delle memorie della kiira. A quelle parole di antica cortesia elfa i tre inarcarono le sopracciglia simultaneamente, ma l’umano continuò: «È mio desiderio fare amicizia col popolo di Cormanthor, senza cattive intenzioni, né intrusioni. Il vostro paese e la Gente di questo luogo sono per me tanto meravigliosi da essere considerati grandi tesori, che noi uomini onoriamo da lontano».
«Ciò significa che voi non siete la prima spia di un esercito umano?», grugnì Lord Qildor, la mano pronta sull’elsa d’argento lavorato della spada che gli pendeva lungo il fianco.
«E non è tutto», rispose mite Elminster. «Non è desiderio del mio, né di altri regni umani di mia conoscenza, invadere Cormanthor o imporre i nostri modi e commerciare dove non siamo desiderati e potremmo solo arrecare danno. La mia presenza qui è una questione personale, non un affare di stato, né una dichiarazione di invasione o una curiosa esplorazione. Nessun cormanthoniano deve temermi, o vedermi come qualcosa di più di un uomo solo, animato da una profonda ammirazione per la Gente e le sue conquiste».
Lord Qildor inarcò nuovamente un sopracciglio. «Perdonate il mio discorso precedente», esclamò, «ma permettereste a un mago di verificare la verità di ciò che dite?»
«Ora e sempre», rispose il principe, guardandolo negli occhi.
«Se è così», ribatté l’elfo, «mi sono fatto di voi un’idea sbagliata ancor prima di incontrarvi, basandomi solo sulle speculazioni di altri. Tuttavia, Lord Elminster, dovreste sapere che io, come gran parte dei miei simili, temo e odio gli umani; vederne uno nel cuore del regno è per noi fonte di allarme e di disgusto. Le vostre nobili azioni o le parole gentili, temo, non potranno cambiare il nostro modo di pensare. Abbiate cura di voi in questo luogo, signore; altri potrebbero essere meno comprensivi di me. Forse sarebbe stato meglio per tutti se non foste mai venuto a Cormanthor».
L’elfo rimase in silenzio per un momento, austero nella sua tunica di seta gialla, e poi aggiunse lentamente: «Vorrei trovare parole più cortesi per voi, uomo, ma non posso. Non è nella mia natura, e ho veduto più umani di gran parte degli altri elfi».
Poi annuì con aria un po’ triste, e si voltò. Numerose gemme brillarono qua e là fra i capelli che gli ricadevano sulla schiena, lunghi e magnifici come quelli di una donna di nobili origini. La sua signora, che aveva fino ad allora ascoltato con lo sguardo rivolto a terra, sollevò fiera il volto, elargì a Elminster e al mago di corte un ampio sorriso, ed esclamò: «Concordo con mio marito. Addio, signori».